Voler essere quel che si è
Voler essere quel che si è

Voler essere quel che si è

Di Simone Raffaele

Ferma i tuoi pensieri per qualche istante. Non riesci? No, semplicemente non puoi. Cerca di prendere in mano la tua volontà e decidi di scegliere veramente la tua prossima azione, ignorando completamente tutte le motivazioni dietro ad essa.

Non riesci? È difficile, e forse questa azione è riservata soltanto ai pochi eletti dal Fato. Allora chi siamo, se non ciò che dobbiamo essere? Ogni scelta presa sin dal nostro concepimento ha formato quello che noi oggi riconosciamo come la forma presente del nostro essere. Ma ogni scelta non è frutto delle circostanze in cui ci troviamo? Società, cultura di appartenenza, classe sociale, sistema politico, influenza dei nostri genitori o delle varie amicizie (o, per certuni, della solitudine): tutto questo non lo abbiamo scelto noi, ovviamente; ergo, l’influenza che riceviamo da questi fattori è intoccabile e non modificabile. Dunque la scelta si dimostrerebbe una semplice conseguenza involontaria di varie circostanze e fattori: un’illusione, visto che non abbiamo avuto realmente una decisione da prendere, ma abbiamo semplicemente subìto un susseguirsi di eventi a catena che hanno prodotto un determinato risultato.

D’altro canto, nel momento in cui rinneghiamo parte del nostro “essere” perché diventiamo consapevoli della sua malattia – contratta, nel nostro caso, vivendo nel mondo Occidentale moderno – non stiamo forse scegliendo di smettere di essere qualcosa che non siamo, per formare quello che siamo veramente?

Quindi la scelta non si limita ad essere un semplice meccanismo naturale dell’Universo, ma si manifesta come qualcosa di trascendentale, oltre l’immanente, spirituale, irrazionale, inspiegabile. Con essa si plasma la vera essenza della vita, proprio perché in essa riusciamo ad andare contro – od oltre – qualcosa che è molto più grande e potente di qualsiasi essere: la volontà.

Distaccandosi o sopraelevandosi da quest’ultima, il nostro sé perde inevitabilmente la sua bramosia per il “più” e contemporaneamente riconosce “il giusto” per raggiungere uno stato di tranquillità e sicurezza in armonia con la vita stessa, come se fosse una processione necessaria per coprire il trono vacante della volontà. Senza una tale autocoscienza, si rischia di essere semplice “conseguenza” dei vari fattori intorno a noi, i quali hanno sviluppato quello che noi crediamo di essere: consapevolmente o meno, chiunque viene trascinato dalla corrente del fiume eterno della vita è destinato a essere scolpito da qualcosa o qualcuno esterno al suo essere; sarà semplice prodotto delle circostanze – dei “fattori” – che ho citato poc’anzi. Chi inizia a nuotare, invece, è consapevole delle condizioni della sua esistenza, ovvero: se smette di nuotare, finirà come gli altri corpi morti che galleggiano intorno a lui, e piuttosto che fare una fine del genere, preferirebbe annegare nelle profondità del fiume. Quindi nuota e dà lui stesso un motivo al suo movimento; non sa cosa lo aspetta alla fine del percorso, anzi, non sa proprio se ci sarà una fine. Ma nonostante tutti i dubbi e la confusione causata dalla mancanza di un chiaro obiettivo “assoluto”, “rivelato”, lui accetta e gioisce di essere in quel fiume eterno: ad ogni metro percorso, crea i suoi valori mediante la sua volontà distaccata, la noluntas, l’Oltre.

Il senso della vita?

Come esseri umani, siamo stati alla costante ricerca di un perché, di un senso, di un motivo per esistere sin dagli albori della nostra specie: da questa ricerca, abbiamo progressivamente creato delle risposte alle quali – per diversi motivi – gli abbiamo dato un valore assoluto, inconfutabile e dogmatico. Quando però una di queste risposte inizia la sua disgregazione, la società è la prima a sentirne i sintomi; ed ecco che la vuotezza dell’anima, la confusione spirituale e il nichilismo passivo diventano elementi “normali” nella società post-mortem di Dio, profetizzata allora da Friedrich Nietzsche¹.

Allora, una volta esiliati dal regno di Dio, nella sofferenza la società smarrita vedrà una nuova possibile risposta e dirà senza alcun dubbio: «la vita è sofferenza». Perciò che importanza avrebbe la trasvalutazione di tutti i valori? Piuttosto, dovremmo dirigerci verso l’estinzione di questa specie malriuscita – pensa il malriuscito – mentre ci facciamo guidare dagli impulsi, senza averne alcun controllo. Ma oltre questo fatalismo, che quasi sempre sfocia in becero edonismo, si cela il vero senso della vita: nientemeno che la vita stessa – o meglio, la potenza della vita in tutte le sue forme.

Questo magnifico dono assolutamente privo di senso, assurdo in ogni suo aspetto e avvolto nel mistero è la base su cui noi possiamo costruire ogni ‘senso’ mediante la volontà di potenza. Non importa dargli una spiegazione, perché probabilmente non ne ha nemmeno una: esiste per com’è, si palesa come un dio guerresco pronto a demolire tutti gli idoli che intralciano la sua possente e inarrestabile creatività.

Nella sofferenza troveremo una risposta, come nella gioia troveremo il fine ultimo dei nostri sforzi: il piacere senza sofferenza è fiasco, illusorio, mediocre; la sofferenza senza piacere è autodistruzione del proprio essere. Non importa se si è insoddisfatti di alcune sue sfaccettature: la vita è “imperfetta” solo perché noi decidiamo di vederla come tale, e questo non avviene a chi diventa araldo della vita.

Se il vero senso della vita è così nobile e bello, perché in giro sentiamo più piagnistei di persone che hanno rifiutato il dono di vivere la vita, piuttosto che elogi ad essa?Perché i corpi morti sono quello che devono essere. La loro volontà non ha avuto scelta.E tu, anima libera e distaccata, Edelmensch, sii quello che devi essere, ascendi abbastanza in alto nella vetta per non sentire più i loro lamenti: chi vorrà capire le tue intenzioni, sarà affianco a te.

“Voi mi dite: «la vita è difficile a sopportare». Ma che vi servirebbe allora il vostro orgoglio la mattina, e la vostra rassegnazione la sera? La vita è difficile a sopportare: ma non siate dunque così delicati! Noi tutti siamo asini carichi di pesi.”

Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra

[1] Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, 1882, libro quinto, passo 343.