Di Alessandro V.
«Io sono della Terra degli alberi e delle foreste, delle querce e dei cinghiali, delle vigne e dei tetti spioventi, delle epopee e delle fiabe, del Solstizio d’inverno e di San Giovanni di estate».
Dominique Venner
È il 21 maggio 2013. In un ordinario pomeriggio parigino, un uomo entra nella cattedrale di Notre-Dame, porta una pistola alla testa e preme il grilletto: così trapassa Dominique Venner, controverso e poliedrico intellettuale francese, storico di formazione, cacciatore, militante dell’OAS e veterano dell’Esercito francese nella Guerra d’Algeria; nonché scrittore rigoroso e prolifico. Ricordiamo, tra i tanti: Il bianco sole dei vinti, saggio storico sulla guerra di secessione americana; Ernst Jünger: un altro destino tedesco; Le Coeur rebelle e innumerevoli articoli riguardanti la Storia, il mestiere delle armi, l’arte venatoria e la Politica.

La morte del “Samurai d’Occidente” è carica di significato simbolico ed il suo messaggio giunge a noi chiaro:
«Al crepuscolo di questa vita, di fronte agli immensi pericoli per la mia Patria europea, sento il dovere di agire fino a che ne ho forza; ritengo necessario sacrificarmi per rompere la letargia che ci sopraffà. Quando tanti uomini vivono da schiavi, il mio gesto incarna un’etica della volontà. Mi do la morte per risvegliare le coscienze addormentate: insorgo contro la fatalità, contro i veleni dell’anima e contro gli invadenti desideri individuali che distruggono i nostri ancoraggi identitari».
Il gesto di Dominique Venner non è passato inosservato, eppure è stato sostanzialmente distorto: sia da chi ha liquidato l’episodio come il romantico e reazionario beau geste di un ex combattente nostalgico e stanco di esistere; sia da chi, sul fronte opposto, lo ha dipinto come l’atto finale di un fanatico sofferente ed intollerante nei confronti delle libertà democratiche. Nel suicidio rituale di Venner non vi è traccia di sentimentalismo romantico, né della semplice ricerca della “bella morte”, ma vi sono invece: dominio totale, gravitas romana, supremazia dell’ethos sul pathos, tragico realismo e la volontà d’insorgere, con un gesto estremo, contro gli effetti deteriori del Tramonto dell’Occidente.
Quello di Dominique Venner non è, ovviamente, l’atto di chi si dà la morte come fuga dalla vita o dall’azione, assumendo un atteggiamento arrendevole e passivo, ma è un gesto proveniente da solide fondamenta stoiche. Lo stoicismo, infatti, contemplava il suicidio come atto conclusivo di un compito assegnato dal destino, al culmine di una vita attiva e uniformata all’ordine divino della natura; suicidio come gesto etico, non passionale e non fondato sul disagio momentaneo. Nella visione stoica del mondo, gli uomini sono portatori di una scintilla di fuoco eterno: essi partecipano all’armonia del mondo in cui tutto è in interazione organica e non meccanicistica. Dello stoicismo di Venner vi è conferma in Samurai d’Occidente, ultimo suo libro, testimone di una battaglia suprema e perenne, “manuale di un europeo scritto per gli europei”.

In questo breviario del ribelle, egli cita, a più riprese, l’imperatore Marco Aurelio, per il quale: «La filosofia non propone programmi politici, ma deve formare e preparare l’uomo di Stato alla disciplina dell’azione». Quando, riprendendo la teoria dei “due Stati” di Seneca, lo Stato storico ed esteriore decade e viene meno, occorre costruire lo Stato interiore e applicare la Sovranità assoluta – Hegemonikon – su sé stessi. Consideriamo questo concetto fondamentale, vivendo noi nella fase discendente di un ciclo storico.
Il libro contiene una serie di preziose riflessioni dello storico francese, il quale ripercorre il lungo cordone dorato della tradizione perenne, dimostrando altresì la validità eterna dei caratteri essenziali del pensiero classico greco-romano:
«Lo stoicismo non è la caratteristica esclusiva di una categoria sociale – si legge nelle pagine conclusive del breviario – occorre non lamentarsi, tenere per sé le proprie pene, non esibire i propri sentimenti e stati d’animo, tragedie affettive o gastriche; vietarsi di parlare di soldi, salute, cuore, sesso: tutto ciò che viene diffuso nelle riviste da salone di bellezza e dagli strizzacervelli».
Samurai d’Occidente è l’estrema sintesi: un invito ad assumere un’estetica aristocratica e un’etica del dovere, non inteso in senso moralistico o paternalista, ma un dovere concepito come lo svolgimento della propria opera nel mondo: “fare ciò che deve essere fatto”, secondo una citazione evoliana. Lettore di Seneca e grande ammiratore di Omero, Dominique Venner reputava Iliade e Odissea i libri “sacri” dell’Europa: due pilastri fondamentali per la costruzione della propria acropoli interiore, prioritaria rispetto a qualsiasi azione politica, la quale non può concepirsi senza l’uomo integrale. È lo stesso Seneca a ricordare che “vivere militare est”: la dottrina senecana della vita come militia – esplicitamente adottata dallo storico francese – viene ricondotta all’arcaica nozione romana del bellum vissuto come rito sacro e come simbolo di azione restauratrice dell’ordine cosmico. È proprio il senso della militia che innerva tutta la vita di Venner:
«Senza il militantismo radicale della mia gioventù – racconta – senza le speranze, le illusioni, le defezioni, le vigliaccherie, le bassezze, i complotti un po’ folli, la prigione, le sconfitte, i colpi duri, ma anche senza gli ammirabili slanci di fedeltà a cui ho assistito, senza questa esperienza eccitante e crudele, mai sarei potuto divenire lo storico riflessivo che sono. È l’immersione totale nell’azione, con i suoi aspetti più sordidi e più nobili, che mi ha forgiato e mi ha fatto comprendere la storia dall’interno, al modo di un iniziato, e non come un erudito ossessionato da insignificanze o come spettatore idiota di apparenze».
È all’insegna della pratica e dell’azione che Venner, kṣatriya nello spirito, stende la sua eredità ideologica:
«Non lasciate trascorrere una settimana senza recarvi nella natura – ammonisce – annodate legami personali dappertutto. Zaino in spalla, voi dovete partire per incontrare ragazzi e ragazze della nostra grande patria europea, riscoprire i luoghi altamente simbolici della nostra civiltà celtica, slava e germanica, irrigata dal flusso della tradizione greca e romana».

Le indicazioni del Samurai d’Occidente sono un antidoto al veleno del “senso di colpa dell’uomo bianco”, nonché il fondamento esistenziale per compiere la marcia contro lo Zeitgeist: su immagine del Cavaliere del Dürer che, nec spe nec metu, incede marzialmente nella foresta nera. Ne Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo di Jean Cau si legge: «Non vedi in me il solitario, così terribile che solo un cane chiamato Fedeltà osa marciare al suo fianco?»
Anche durante la Notte della Civiltà, nella nostra acropoli interiore dobbiamo sempre agire nella direzione del nuovo inizio, ricordando l’ammonimento di Hegel per il quale «l’essenziale è rimanere fedeli al proprio scopo».