Di Maria Antonova
L’Italia, nel contesto geopolitico, viene spesso percepita come un’estensione delle dinamiche centro-europee, vincolata ai parametri economici di Bruxelles, parte integrante dei dispositivi militari della NATO, allineata a un Nord tecnocratico e post-identitario. L’Italia non è però solo uno stato europeo, è una civiltà mediterranea.
Riconoscere l’Italia come euromediterranea significa sottrarsi alla subalternità verso modelli nordici per riscoprire la propria vocazione culturale e spirituale, radicata nella storia, ricca di stratificazioni, capace di visione.
Come scriveva Franco Cassano ne Il pensiero meridiano (1996), “il Sud non è solo una geografia, ma una forma del pensiero”. In questa prospettiva, il Mediterraneo non è periferia dell’Occidente, ma suo centro, un luogo che custodisce l’intreccio tra sacro e umano, tra comunità e memoria, tra terra e simbolo.
In sintonia con alcune intuizioni di Alexandr Dugin, il Mediterraneo può essere pensato non come semplice spazio geografico, ma come macro-civiltà: crocevia di culture greche, romane, arabe, cristiane, bizantine. Un luogo dove la storia non si è stratificata in modo lineare, ma ha generato forme ibride, vitali, sincretiche. Non è necessario condividere o sostenere tutte le idee politiche o geopolitiche di Dugin e il progetto eurasiatista, ma si può trovare comunque interessante la sua critica alla modernità occidentale, che ha perso il legame con la dimensione spirituale e sacra della vita. Senza radicamento, ogni civiltà si dissolve nella tecnica e nel nichilismo.
Roma, per secoli, ha unificato il Mediterraneo attraverso lingua, diritto, religione. La sua religione antica, come ricorda Giorgio Locchi, non era superstizione, ma visione del mondo. La Religio Romana strutturava l’ordine simbolico della civitas. Anche il cristianesimo, soprattutto nella sua versione latina, ha raccolto questa eredità, trasformandola in una spiritualità storica, incarnata, pubblica.
La logica neoliberale e la digitalizzazione integrale tendono a cancellare ciò che non è standardizzabile: le lingue locali, i riti, la memoria, la comunità. Ma una civiltà che recide le proprie radici perde la capacità di fiorire.
Il ritorno in alto non è nostalgia del passato, ma desiderio di senso, di una vita in cui non ci si senta alienati o svuotati, di una comunità ospitale, di una storia condivisa.
Abbiamo bisogno di una nuova Italia, capace di creare e non solo di imitare, che conosce e custodisce le proprie radici culturali, storiche, spirituali. Un’Italia che sa immaginare il futuro, proporre alternative, rompere l’inerzia dell’omologazione. Non nostalgica, ma consapevole, non utopica, ma profetica.
Un’ Italia generativa, radicata e visionaria.