Una porta socchiusa ai confini dell’Invisibile
Una porta socchiusa ai confini dell’Invisibile

Una porta socchiusa ai confini dell’Invisibile

La ricerca dell’anima attraverso la rêverie artistica

di Michela Bianconi

Appoggiandoti, fresca chiara
rosa, contro il mio occhio chiuso, –
si direbbero mille palpebre
l’una sull’altra


contro la mia calda.
Mille sonni contro la mia finta
che mi fa vagare
nell’odoroso labirinto.


(Rainer Maria Rilke, Le rose, VII)

Immaginiamo un uomo che cammina in su e in giù, tutto assorto nei suoi pensieri per delle lettere ricevute e alle quali è chiamato a rispondere. L’uomo cammina e pare preoccupato. Poi, improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, qualcosa gli compare sul volto. Un’espressione dubbiosa, che lo costringe evidentemente a interrompere le proprie riflessioni. Gli è sembrato, infatti, che nel fragore della tempesta dei suoi pensieri, una voce, di punto in bianco, si sia erta su tutte le altre, gridando verso di lui: “Chi, s’io gridassi, m’udirebbe mai dalle sfere / degli angeli?”.

L’uomo si ferma, in ascolto. “Che cos’è? Cosa sta arrivando?” – sussurra a mezza voce.

Quindi, spinto da qualcosa, dentro di lui, cui non si sente di certo in grado di potersi opporre, estrae dalla tasca il taccuino che porta sempre con sé e inizia a scrivere quelle parole, aggiungendo subito degli altri versi che gli nascono spontanei…


Chi, se io gridassi, mi udirebbe dagli ordini degli angeli?

L’uomo in questione si chiama Rainer Maria Rilke e quello appena descritto è il contesto in cui nasce, nel 1912, la prima delle sue Elegie, una serie di testi che non solo si fondano su esperienze di natura più fine, profonda, remota, di quante sono comunemente disponibili, bensì anche su quelle che recano in sé, almeno in parte, il carattere dello straordinario1.

Opere che, insieme ai Sonetti ad Orfeo, scritti contestualmente, lo stesso Rilke percepisce e descrive, in una lettera del 20 aprile 1923 a sua moglie Clara, alla stessa stregua di un dono oscuro, di quella sorta, però, che non richiede uno schiarimento, ma una sottomissione.

Dei Sonetti, in particolare, egli scrive:


Essi sono forse il dettame più segreto che, nel suo sorgere ed impormisi, fu anche per me il più misterioso a cui io avessi mai retto e obbedito; tutta la prima parte fu scritta in un unico affannoso obbedire, tra il 2 e il 5 febbraio 1922, senza che una parola fosse in dubbio o da mutare…Come non sentir crescere in se stessi una venerazione e una gratitudine infinita per tali esperienze vissute nella propria esistenza?

Il suo personale rapporto con questa poesia è, allora, quello che Romano Guardini definisce del profeta in quanto organo che comunica. Egli si sente e si vive, infatti, come il tramite attraverso cui una voce “altra” si esprime. Un uomo che, di fronte alla propria parola, non svolge un ruolo attivo, di ricerca e trasmissione, ma che piuttosto assume un atteggiamento di ascolto. E solo timidamente s’introduce nel dialogo che viene a mano a mano istaurandosi.

Di certo Rilke può essere definito come un uomo del crepuscolo. Un uomo assegnato a una linea di confine, non solo tra passato e futuro, come testimoniato dal Libro delle Ore e da altri testi che guardano rispettivamente nelle due direzioni opposte di ciò che è stato e ciò che sarà, ma anche tra il giorno e la notte. Tra la superficie e la profondità. Armoniosamente intrecciato in un interfacciarsi di sensi e significati che, spesso e volentieri rendono molto difficile capire cosa vogliano dire i suoi versi e le sue parole.

Non a caso, le Elegie Duinesi fanno parte dei testi più difficili dell’intera letteratura tedesca. Giacché Rilke, nel farsi strumento della loro composizione, imbocca una strada il cui cuore penetra nella profondità del transitorio e che, nell’avvolgersi spiralizzante verso uno spazio via via sempre più intimo, socchiude le porte al mistero della metamorfosi dell’Invisibile.

Ma non corriamo troppo. E soffermiamoci, piuttosto, sulla parola mistero e sull’importanza intrinseca delle parole in generale. Un’importanza imprescindibile, a maggior ragione, considerato il contesto poetico da cui siamo partiti e di cui stiamo discorrendo.

L’etimologia della parola mistero si riallaccia al latino mysterium e al greco μυστήριον (mystérion) = segreto, arcano, a loro volta risalenti a μύστης (mýstēs) = iniziato e a μύω (myō) o μυεω (myeō) = sto chiuso o mi chiudo. Essa è pertanto intesa, per lo più, nell’accezione più diffusa di ciò che è inspiegabile o inaccessibile  alla comprensione, un segreto chiuso in se stesso, che non può essere schiarito o rivelato, come afferma lo stesso Rilke. Ma di fronte al quale ci si può solo sottomettere.

Un mistero, in effetti, non ammette soluzione, e anzi le resiste strenuamente, giacché questa non farebbe altro che spezzare per sempre la sua chiusura e farlo scomparire, snaturandolo. Eppure, come un amante voglioso, la seduce e la richiama di continuo, quasi a volerle ironicamente mostrare dove si trova ciò che è autenticamente inspiegabile. Tutto ciò che, sfuggendo da ogni razionalizzazione, non può più a questo punto che essere onorato in quanto tale, accolto e sperimentato nella propria vita.

Siamo a cavallo di un regno in cui la parola d’ordine per l’accesso è: effimero. Un termine che, per la sua stessa origine (esso deriva, infatti, da ἐπί, epi, «sopra», «per», «in aggiunta a» e ἡμέρα, emera, «giorno») indica qualcosa di transitorio, di non persistente, quasi al di fuori del tempo e la cui esperienza non può che risalire all’intuizione di un istante. Un’intuizione che, spaccando il normale scorrere della vita, l’attraversa, insinuandosi e penetrando in essa fino a raggiungere una nuova, inspiegabile, dimensione. Quella del mistero, in grado di trascinare allo stesso tempo su vette e in abissi inimmaginabili, nei quali tuttavia è impossibile permanere a lungo.


Tutto in pochissimi giorni, fu una tempesta senza nome, un uragano nello spirito (come un tempo a Duino), tutte le mie fibre e i miei tessuti scricchiolavano – al cibo non fu mai possibile pensare, Dio sa chi m’ha nutrito2

È indubbio, a questo punto, pensare che le Elegie Duinesi siano nate da zone assai profonde della vita interiore di Rilke. E quasi superfluo, ormai, è precisare che esse non obbediscano a leggi razionali. Ogni lettore, dinnanzi ai loro versi, è di fatti costantemente istigato a tenere in considerazione che esiste una potenza “altra”. Una potenza che non solo ha agito nel momento della loro nascita, ma che ha guidato il poeta, così come guida chiunque vi si approcci, nel movimento fluido dei pensieri e delle immagini che in esse si susseguono.

Le Elegie si presentano, a tutti gli effetti, come sogni. O, come le definirebbe piuttosto Gaston Bachelard: rêverie ad occhi aperti, in grado di rivelare connessioni che la vita vigile non conosce, e che forse non vuole neppure conoscere. E se è vero che proprio quando parla della propria, personalissima esperienza il poeta dice cose che riguardano tutti, allora questi testi aprono una porta verso accessi che conducono a ciò che non è ancora divenuto, né formato, e che preme dalle profondità della storia3.

Ciò che James Hillman, padre della Psicologia Archetipica, certamente non esiterebbe a definire anima, confermando ancora una volta il legame profondo tra uno dei suoi percetti principali, chiamato, non a caso, FARE ANIMA, con la POESIA.

Ma che cos’è, di preciso, l’anima?

Ebbene, di preciso, l’anima non è definibile.

Come il mondo “altro” che si presenta sotto forma di intuizione, rompendo l’istante, essa infatti sfugge a ogni definizione che abbia la pretesa di essere autoconclusiva ed esaustiva. Come se non potesse mai essere afferrata del tutto o nel suo complesso.

Certo, possiamo sempre provare a cercare dei paragoni. E come non pensare, allora, a quel senso generale che ci porta a leggerla da una prospettiva religiosa? L’anima diventa così, semplicemente, la parte immortale di ciascuno di noi. Eppure, se anche volessimo soffermarci già solo a questo, le implicazioni di tale definizione aprirebbero ulteriori altre parentesi. Prendiamo il mito egizio, ad esempio. Basta una sola, rapida occhiata per scoprire che il concetto di anima si declina già in ulteriori due concetti: quello di Ba, l’anima come manifestazione dell’essenza nel tempo finito della vita, e il Ka, l’anima immortale e immune al cambiamento che appartiene al tempo di Osiride, il tempo, cioè che richiama al mondo dei morti e all’aldilà.

Lo stesso Plotino, nelle sue Enneadi, compiva un discorso piuttosto simile, parlando dell’anima dell’uomo come divisa in due componenti: quella sensibile, legata al mondo concreto e, quindi, in grado di modificarsi e apprendere da esso, e una immutabile, che ricollega direttamente a Dio e che ci rende, almeno in parte, fatti “a sua immagine e somiglianza”. Una parte eterna, dunque, che brilla dentro ciascuno di noi come una stella particolarmente luminosa. Ma alla quale è estremamente difficile accedere, giacché rappresenta proprio l’istanza divina dentro di noi.

Un’istanza quasi trascendentale, dunque, che sembra richiamare a una direzione opposta rispetto a quella egizia del Ba e del Ka. Se da un lato, infatti, l’influenza cristiana del filosofo rimanda all’Altissimo e unico Dio, che persiste al di là della morte, dall’altro le antiche credenze della Terra del Nilo ci rimandano a un movimento verso il basso, che spinge direttamente tra le sue braccia.

Un movimento che compie anche Hillman nel momento in cui, dando una sua lettura dell’anima, la rimanda, inevitabilmente, al Mondo Infero di Ade. L’innominabile dio dalle infinite ricchezze dell’Aldilà greco. Amante dell’Invisibile e invisibile egli stesso.

L’anima, ci suggerisce allora l’autore, più che come una sostanza da afferrare e comprendere, può essere vista come una prospettiva. Più che una cosa in sé, una visuale sulle cose. Un substrato di immaginazione che persiste e risulta essere totalmente indipendente dagli eventi in cui siamo immersi. E che pure, dall’altro lato, ci consente di entrare in relazione con essi, sancendo così una differenza tra noi stessi e tutto ciò che ci accade. In altre parole: anima, nella prospettiva della Psicologia Archetipica, altro non è se non un sinonimo di psiche. Il soggetto e l’oggetto, allo stesso tempo, di ogni osservazione, giacché nulla può essere compreso e conosciuto se non passa per la psiche. Un aspetto che, se da un lato fa sì che ogni nostra percezione, ogni nostro sentimento, ogni comportamento e pensiero diventino un modo per la nostra anima di sentirsi, vedersi, percepirsi e comunicarsi a noi, dall’altro, di nuovo, complicano ulteriormente la possibilità di poterla afferrare per ciò che è di per se stessa. Perché l’anima non può essere isolata dalle forme di cui si serve. E necessariamente torna a mostrarsi come un flusso, dotato di insondabile profondità, che traspare, un sospiro che vitalizza il mondo e lo arricchisce di senso e significato.

Eccolo, dunque, l’unico modo in cui possiamo definire l’anima: la prospettiva psichica attraverso cui vediamo noi stessi e il mondo. Una prospettiva mutevole, spesso legata alla vita, ai bassifondi, alla profondità, e che invita, inevitabilmente, giorno dopo giorno, istante dopo istante, a guardarvi attraverso. Quasi una finestra che, di volta in volta, dà su innumerevoli panorami. Giacché solo guardando e guardando spinti dal desiderio di intravedere, possiamo scorgere quella minuscola goccia di rugiada che si posa su ogni cosa intorno a noi e, inumidendola, penetrando in essa, la rende viva. Il mistero che invita a farglisi accanto, per scrutare all’interno del suo infinito mondo chiuso.


Dimmi, rosa, come avviene
che in te stessa racchiusa,
la tua lenta essenza impone
a questo spazio in prosa
tanti aerei slanci4?

È così che vogliamo tornare a Rilke e ai suoi componimenti.

E al moto prepotente della sua anima nell’interfacciarsi con lui, interrompendo bruscamente il suo momento di riflessione, per domandare, accorata:


Chi, se io gridassi, mi udirebbe dagli ordini degli angeli?

La tensione non è una vera e propria provocazione, quanto piuttosto l’inizio di altro. È l’istante che, spaccato a metà, improvvisamente irrompe verso una realtà finora rimasta sconosciuta. Verso un desiderio di relazione che inevitabilmente rimanda al senso di abbandono e di isolamento del poeta stesso.

Il poeta che, narcisisticamente, si chiude e si isola dal mondo esterno, per rivolgersi verso un luogo non luogo che lo rimanda altrove e dal quale egli necessita di ricevere messaggi.

Ecco, dunque, perché lancia il suo grido agli angeli.

Ma cosa cerca presso di loro?

Forse un tenero ricordo di chi lo ha conosciuto davvero, può esserci utile a rispondere questa domanda. Facciamo allora riferimento a Rainer Maria Rilke. Un incontro (1927) di Lou Andreas-Salomé, un testo delicato e calzante, che inizia proprio con queste esatte parole:


Chi dispiegasse davanti ai proprio occhi quel che René Maria Rilke aveva già portato a termine alla metà degli anni Novanta (…) non potrebbe sottrarsi completamente all’impressione che sia da sempre esistita una relazione tra il poeta e la morte. Soltanto l’affinità alla morte delle cose che egli canta, il loro elevarsi alla delicatezza, all’effimero, alla fragilità, sembra renderle degne della sua poesia. Morendo esse esalano una bellezza che è la loro parte d’eternità, e il suono che da esse ci giunge è quindi lieve, esuberante ma delicato, talora di una musicalità quasi incomprensibile, talora perfino ai limiti del sentimentalismo. È tuttavia sempre in agguato la possibilità di un malinteso, che troppe volte ha costretto la poesia di Rilke nelle strette di un falso romanticismo; perché nel suo canto, evocando ciò che è caduco, egli intendeva già all’inizio, fin da principio, non la morte, bensì la vita; la poesia era per lui quella realtà ove l’una e l’altra coincidono. E poiché le cose troppo sane rifiutano di vedersi attribuire qualunque legame con la morte, egli si soffermava tra quelle che, in parte, già ne avevano esperienza; in mezzo a loro poteva avanzare lungo quel confine sul quale le povere, inadeguate parole “vita” e “morte” giungevano a confondersi (…).
null’altro egli desiderava, se non dare un giorno parola, anche attraverso gli oggetti più ordinari, privi di qualunque delicatezza, a ciò che la realtà significava per lui. La poesia non poteva essere che questa esperienza interiore della realtà, condensata in parole che avrebbero poi risuonato come evocazioni:
essere non suono
.

Eccola, dunque, la risposta alla nostra domanda.

Una risposta tanto scontata quanto profondamente umana.

Nella sua poesia, Rilke cerca l’eternità. E un’eternità che non riguarda tanto il ricordo o l’entrare in una memoria collettiva attraverso le opere compiute durante la vita. No. Attraverso la poesia egli cerca la porta d’accesso all’eternità del suo essere. Tutto ciò che, dinnanzi alla caducità scevra della vita quotidiana, possa costituire per lui un rifugio sicuro, caldo e accogliente. Un rifugio, tuttavia, che non può mai esser dato per assodato. Né raggiunto definitivamente. E che pure resta, quieto, ad attendere il poeta, ogni volta che, ritirandosi su se stesso in un’azione riflessiva, faccia vuoto delle vicissitudini di tutti i giorni, così come dei pensieri e delle credenze tipiche della quotidianità, egli conferisca alla spazio fuori di sé il carattere dell’intimità5.

Un esempio fondamentale di tale procedimento è la notte.

Nel buio, infatti, i contorni dello spazio e delle cose della realtà concreta intorno a noi, sfumano fino a perdere di consistenza. Il silenzio ci avvolge e ci culla tra le sue braccia. E qui, al sicuro, ci addormentiamo, sedando di fatto tutto ciò che è fisico (o quasi), per accedere a un mondo diverso: il mondo dei sogni.

È qui che sembra allora compiersi una sorta di inversione della percezione. E il mondo interno, che finora abbiamo sempre percepito come qualcosa di nascosto dentro di noi, improvvisamente diventa il luogo all’interno del quale ci ritroviamo a vivere e a sentire. Un luogo nel quale possiamo entrare in relazione con le zone profonde di noi stessi. Il nostro personale, accogliente, mondo infero, popolato di ombre e anime e spiriti sempre pronti a comunicare qualcosa o a dire la loro.

Qui, spazio e tempo si contraggono e si dissolvono.

E contraendosi e dissolvendosi, di fatto, ci pongono direttamente in contatto con un’eternità stabile e degna di fiducia. Una stabilità che, per Rilke, l’essere umano non può diversamente permettersi di sperimentare in modo immediato giacché egli è solo un fuoco che si consuma su se stesso e che passa. La sua tendenza alla caducità rende l’atto di esistere, come scrive Guardini, incapace di “osare” nella certezza e nella fiducia di se stesso. Per cui, se desidera una maggiore stabilità, non può che andare a ricercarla nello “spazio interiore cosmico”: nell’essere profondo, puro e infinito. Ciò che noi, poco fa, abbiamo archetipicamente chiamato: anima.

La familiarizzazione con questo spazio, al di là del mondo notturno del sogno, è raggiungibile attraverso un processo di relazione e interiorizzazione della realtà esterna, che trova espressione oggettiva nella parola.


Il compimento della parola è la poesia. Nella poesia il puro essere acquista forma nitida. Proprio in questo modo anche colui che parla perviene all’essere; perché a ciò, ovvero che egli parli in questo modo, mira il “compito” che la “terra”, l’esistenza gli ha affidato6.

È nell’atto dell’interiorizzazione, infatti, che interno ed esterno confluiscono l’uno nell’altro, sancendo così la nascita di un essere autentico: l’uomo che esperisce, trovando nessi tra ciò che gli accade, tra gli eventi che gli occorrono, e il significato profondo che essi hanno per la sua anima.


Respiro, tu invisibile poema!
Spazio puro del mondo, col nostro essere
scambiato senza sosta. Contrappeso
in cui s’attua il mio ritmo.

È come dire che, interiorizzando la realtà concreta, facendola propria, l’esperienza interiore che di questa si fa (proprio perché fornisce una nuova chiave di lettura per se stessi e per il mondo) plasma e modifica (dichtet, scrive Guardini: fa poesia, da poiein: fare, creare, plasmare) l’individuo stesso, trasformandolo in essere autentico.

Quell’essere autentico, stabile e fedele a se stesso che trova il suo centro in un infinito universo fatto di miliardi di stelle. E che, come una rosa, appare unitario pur essendo composto da grande varietà di petali.


Se la tua freschezza a volte ci stupisce,
gioiosa rosa,
è perché in te, petalo contro petalo,
dentro te stessa, ti riposi.


Un corpo sveglio il cui centro dorme,
mentre innumerevoli si toccano
le tenerezze del cuore silenzioso
che culminano poi nella tua bocca7.

Eccola, allora, data dal poeta stesso, una bella immagine di quell’anima sfuggente che mai si afferra del tutto. Quell’anima che grida e che chiede, reclamando messaggeri (angeli) in grado di veicolarla senza disperderne l’essenza.

E così le parole si fanno vaghe e dense allo stesso tempo.

Il tutto viene accennato senza mai esser definito per sempre.

E il mistero mantenuto tale.

Perché, in fondo, il modo in cui si presenta e commuove, è fatto d’impressioni delicate e odorose. Di profumi che sembrano apparire e poi sparire velocemente. E ciò che ne resta è l’emozione. Quel meraviglioso senso di esser stato toccato, nel più intimo, da qualcosa di importante che non può esser chiarito davvero, ma che chiede semplicemente di essere accolto, onorato e amato.

Note:

1 Guardini, R. (1941): Einleitung. In: Zu Rainer Maria Rilkes Deutung des Daseins. Eine Interpretation der zweiten, achten und neunten Duineser Elegien, Verlag Helmut Küpper, Berlin. Trad. It. a cura di Lucia Mor, L’interpretazione dell’esistenza di Rainer Maria Rilke. Una lettura della Seconda, Ottava e Nona Elegia Duinese. In: Opera Omnia, XXIV: Rainer Maria Rilke, Brescia, Morcelliana Editore, 2020, pag. 110.

2 Rilke, R.M. (1935): Briefe aus Muzot, Lettere da Muzot. Lettera dell’11 febbraio 1922 alla Principessa von Thun und Taxis. Da:Guardini, R. (1941): Einleitung. In: Zu Rainer Maria Rilkes Deutung des Daseins. Eine Interpretation der zweiten, achten und neunten Duineser Elegien, Verlag Helmut Küpper, Berlin. Trad. It. a cura di Lucia Mor, L’interpretazione dell’esistenza di Rainer Maria Rilke. Una lettura della Seconda, Ottava e Nona Elegia Duinese. In: Opera Omnia, XXIV: Rainer Maria Rilke, Brescia, Morcelliana Editore, 2020.

3 Guardini, R. (1941): Einleitung. In: Zu Rainer Maria Rilkes Deutung des Daseins. Eine Interpretation der zweiten, achten und neunten Duineser Elegien, Verlag Helmut Küpper, Berlin. Trad. It. a cura di Lucia Mor, L’interpretazione dell’esistenza di Rainer Maria Rilke. Una lettura della Seconda, Ottava e Nona Elegia Duinese. In: Opera Omnia, XXIV: Rainer Maria Rilke, Brescia, Morcelliana Editore, 2020, pag. 91.

4 Rilke, R.M. (1927): Les Roses, XX, Trad. it. a cura di Sabrina Mori Carmignani, Le Rose, XX, Firenze, Passigli Editori, 2010.

5 Guardini, R. (1941): Einleitung. In: Zu Rainer Maria Rilkes Deutung des Daseins. Eine Interpretation der zweiten, achten und neunten Duineser Elegien, Verlag Helmut Küpper, Berlin. Trad. It. a cura di Lucia Mor, L’interpretazione dell’esistenza di Rainer Maria Rilke. Una lettura della Seconda, Ottava e Nona Elegia Duinese. In: Opera Omnia, XXIV: Rainer Maria Rilke, Brescia, Morcelliana Editore, 2020, pag. 127.

6 Ibidem, pag. 177.

7 Rilke, R.M. (1927): Les Roses, I, Trad. it. a cura di Sabrina Mori Carmignani, Le Rose, I, Firenze, Passigli Editori, 2010.