Dio ride. Così così – Moni Ovadia
Dio ride. Così così – Moni Ovadia

Dio ride. Così così – Moni Ovadia

 

È andato in scena ieri 13 dicembre al Teatro Politeama Clarici di Foligno l’unica data umbra dello spettacolo dell’eclettico autore di origine ebraica.

 

Il titolo Dio ride. Nish Kosche (tradotto dall’yiddish “così così”) introduce l’opera ad uno spettatore che verrà investito durante l’intero spettacolo dalle note delle musiche rom, sinti ed ebraiche dei cinque musicanti e dai racconti e dai canti di Ovadia che provocano risa a profusione ma anche riflessioni, commozione e turbamenti.

Moni Ovadia è regista, ideatore e attore principale dell’intera opera. È l’indiscusso padrone della scena. Ad accompagnarlo vi è la Moni Ovadia Stage Orchestra, la cui collaborazione con l’autore risale al disco Oltre i confini – Ebrei  e Zingari del 2011, album che racconta la storia dei popoli perseguitati provenienti dall’est Europa tra canti, ritornelli e musiche stravaganti della cultura yiddish mittleuropea.

Protagonista dello spettacolo è Simkha – interpretato da un Moni Ovadia in splendida forma – vecchio ebreo errante: «Una zattera in forma di piccola scena approdava in teatro venticinque anni fa – scrive Moni Ovadia –. Trasportava cinque musicanti e un narratore di nome Simkha Rabinovich, che raccontava storie di gente esiliata e ne cantava le canzoni. Dopo un quarto di secolo, Simkha e i suoi compagni tornano per continuare la narrazione di quel popolo in permanente attesa, per indagarne la vertiginosa spiritualità con lo stile che ha permesso loro di farsi tramite di un racconto impossibile eppure necessario, rapsodico e trasfigurato, fatto di storie e canti, di storielle e musiche, di piccole letture e riflessioni alla ricerca di un divino presente e assente, redentore che chiede di essere redento nel cammino di donne, uomini e creature viventi verso un mondo di giustizia e di pace». Un Dio quindi difficile da trovare da parte dell’ebreo ateo Moni Ovadia, in prima linea nella ricerca di quella divinità che – soprattutto in determinati momenti storici – stenta a farsi vedere.

Lo spettacolo inizia con l’entrata, da parte dei musici viandanti, in mezzo agli spettatori i quali divengono subitamente  partecipi allo spettacolo, alle musiche e ai canti dell’ebreo Simkha. Il cantore decide di giocare a carte scoperte e mostra sin dall’inizio il suo intento: spiegare gli autentici valori fondanti dell’uomo e dell’antica cultura ebraica per mostrare quanto siano sciocchi e soprattutto infami i muri che si stanno innalzando negli ultimi anni nel mondo, su tutti quello che divide Israele e la Palestina.

Si ripercorrono così i quattromila anni di storia del popolo prediletto dal signore, uno popolo di poveri e straccioni, ma anche di ladri e furfanti, uniti tutti da un’identità comune che risiede nella scelta di un Dio monoteista come faro per illuminare il proprio cammino. Da qui si spiegano le rocambolesche vicissitudini degli ebrei, costretti a girovagare per il mondo per circa 3340 anni, ripetutamente esiliati durante il corso dell’intera storia. Ed è proprio durante questo esilio che hanno contribuito nel migliore dei modi alla crescita dell’essere umano, grazie ad esempio alla cultura veicolata dalla Bibbia, della Torah e della Cabala. Un destino umano segnato anche da grandissime personalità di origine ebraica: Abramo, che spiegava la verità con Dio, o Mosè con la legge fino a  Gesù (anch’egli ebreo) che scelse come verità l’amore; per arrivare poi alle speculazioni di Marx e alle analisi storiche che decretano la verità attraverso il conflitto di classe, oppure Freud e la grande intuizione della centralità del sesso fino a giungere ad Einstein e alla “scoperta” della relatività di ogni verità. Gli ebrei che lontani dalla terra santa (“sarebbe preferibile chiamarla terra del sangue”) hanno contribuito ad accrescere il sapere dell’uomo introducendo ad esempio il concetto del Shabbat (sabato) che rende uguali tutti gli uomini, li svincola dall’alienazione del consumo rendendoli liberi di non produrre e di mettersi al pari di quel Dio irraggiungibile, ma che ha senso di essere solo se si dubita della sua esistenza (“Dio sopporta i credenti… ma preferisce di gran lunga gli atei”).

Moni Ovadia si schiera a favore dei diritti della Palestina e si mostra critico nei confronti delle politiche belliche di Netanyahu – che continua ad uccidere e a colonizzare nei territori palestinesi (checché ne dica Matteo Salvini) – e assume il compito di ricordare e di riportare alla memoria ciò che c’è stato di più atroce nella storia con l’obiettivo di cambiare un percorso già avviato verso l’autodistruzione. Il suo ricordo della Shoah (mai direttamente citata dall’attore)  è un modo per biasimare la creazione dei nuovi ghetti, degli olocausti in giro per il mondo. Le immagini sono dure e le barzellette umoristiche sembrerebbero soccombere alle lettura delle poesie di Yitzhak Katzenelson sui rastrellamenti nazisti con sullo sfondo le immagini dei soldati israeliani dinanzi alla moschea di Gerusalemme.

Ma quali frecce ha messo nella propria faretra l’autore per affrontare quest’annosa battaglia? Il dramma senz’altro, la sofferenza, le sventure, le disgrazie ma soprattutto la risata, l’ironia e la facezia. Come insegna Dario Fo, per evitare che la drammaticità diventi catarsi, si deve utilizzare il dispositivo della risata perché con essa – al contrario del dramma – “rimane dentro il sedimento della rabbia. Non riesci ad andar fuori: nella risata tu non riesci a liberarti!”. La risata quindi diviene uno strumento utile all’analisi, che non svuota la riflessione attraverso una catarsi liberatoria (come può essere nel pianto) ma la mette nella posizione di farla entrare pienamente in contatto con l’essere umano così da dispiegare la propria energia costruttiva. Così l’autore si diverte a raccontare storielle, barzellette sull’uomo, sul credo, sull’ateismo e su Dio, sempre presente pur nella sua “inesistenza” (viene chiesto ad un ateo: “Come fai ad essere così sicuro dell’inesistenza di Dio?”. E quest’ultimo risponde: “In qualcosa bisogna pur credere”).

Alla conclusione dello spettacolo l’attore si toglie il cappello dal capo ed indossa una kefiah intonando un canto palestinese.

 

Uno spettacolo atipico nel suo genere, forte e fuori dagli schemi.

Come d’altronde è da sempre stato lo stesso autore.

 

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