Mery per sempre – Marco Risi
Mery per sempre – Marco Risi

Mery per sempre – Marco Risi

 

 

Il film

Se chiudessimo gli occhi pensando a questo titolo, ci verrebbe in mente forse l’immagine di una dichiarazione d’amore scritta su un muro scrostato di una qualche periferia italiana, da parte di un ragazzo adolescente che sottolinea con un avverbio di tempo quanto sia importante questo sentimento: per sempre.

Questo tempo così indefinito, il “sempre”, che assomiglia effettivamente a una condizione permanente, forse quasi una maledizione in questa pellicola, un destino ineluttabile che finisce, sempre, appunto, per andare in un’unica direzione.

Tratto dall’omonimo libro di Aurelio Grimaldi è così che incontriamo alcuni dei personaggi di questo film, che la vita ha addestrato duramente per poter affrontare un epilogo che, in questi casi, è comune a tutti: il carcere.

Irene Bignardi in un articolo del 1989 scritto per “La Stampa” li presenta così:

“[….] Mery, per sempre, vuole chiamarsi Mario, il femminiello palermitano che non si arrende al fatto di essere nato maschio e che è finito dentro per avere picchiato un cliente arrogante, vuole chiamarsi Mery, per sempre, con un nome da donna.

Natale ha una condanna a nove anni per omicidio: aveva vendicato l’ assassinio del padre mafioso, e non se ne pente.

Claudio, a 14 anni e con l’ aiuto del fratellino dodicenne, ha sfondato con una macchina una vetrina, per svuotare un negozio. Giovanni e gli altri sono dentro per detenzione e spaccio di droga.”

Questi ragazzi ed altri ancora, come Pietro (Claudio Amendola ) Giovanni, Antonio, ci accompagneranno nel viaggio nel carcere minorile “Rosaspina” di Palermo, insieme all’insegnante di lettere Marco Terzi (Michele Placido).

Il professor Terzi,  nell’attesa di essere trasferito in un liceo siciliano ,si ritrova a dover insegnare in questa scuola all’interno di un carcere minorile e ad essere catapultato in una realtà difficile, tormentata, che sembra portare il marchio di fabbrica di quelle realtà che invece dovrebbe rifuggire, come mafia, omertà, violenza, indifferenza, chiusura.

Tutte armi di cui si servono le guardie dell’istituto, che avvertono subito il professore di non entrare in determinati luoghi (praticamente tutti, eccezion fatta dell’aula e del cortile esterno), oppure il preside del Rosaspina, che all’inizio del film durante le presentazioni con il prof neo arrivato declama il suo mestiere come “una vocazione”, poi però quando uno dei ragazzi gli porta il caffè, andandosene, lo presenta a Terzi esclusivamente mediante il reato di cui si è macchiato, surclassando il diritto del giovane di essere considerato-prima di tutto- una persona.

Il professor Terzi invece no, non ce l’ha la vocazione, per lui questo è un mestiere come un altro, ma solo lui, venuto da lontano, tenta di rompere gli schemi di questa assurda giostra dove anche lo Stato sembra non esistere più, lasciando spazio alla mafia che come una mamma tiene nel grembo questi ragazzi perduti.

Verità, la mafia, che esiste sia dentro al film sia fuori: durante la proiezione ( in anteprima) della pellicola al cinema Fiamma di Palermo in un giorno di aprile del 1989, tra la folla gremita di pubblico, insieme a giornalisti, carabinieri, fotografi, cast, dai ragazzi del Malaspina (così si chiama in realtà il carcere minorile) arriva un applauso, coincidente con il momento in cui sullo schermo “gli allievi di Placido intonano un coro inneggiante alla mafia, provocando critiche e interrogativi. ”

“Se la mentalità è un po’ mafiosa non c’è niente di male — ha commentato seccamente Placido, in difesa dei ragazzi che avevano battuto le mani —, lo Stato li abbandona e non si capisce perché dovrebbero applaudirlo, è logico, invece, che sia la mafia a riscuotere successo.”

La realtà però è dura: la vita quotidiana, le difficili lezioni, le punizioni inflitte dalle guardie ai più recalcitranti, l’atmosfera di disperazione e di amarezza che sembra gravare su tutto e tutti, inchioderanno anche il coraggioso docente.

Claudio, poco più che adolescente, è insidiato dal compagno Carmelo e poi marcato da tutti come spia per aver denunciato le molestie subite;  qualche tempo dopo verrà trasferito in un altro istituto a Napoli.

Antonio invece diventerà padre e potrà vedere il neonato solo per qualche ora di permesso.

Pietro, il taciturno ragazzo che in classe fuma la sua sigaretta guardando la finestra, alla fine evade e muore subito dopo una rapina effettuata con una pistola giocattolo, mostrando al professore tutta la sua fragilità.

Terzi allora spera che questa morte colpisca per la sua tragica assurdità quei ragazzi “a cui si è dedicato con tanta abnegazione e che ormai gli sono affezionati.”

Quando poi la lettera di assegnazione della cattedra per un liceo siciliano arriva al Riformatorio, Terzi la strappa davanti ai suoi alunni e decide di continuare la sua missione, tra i sorrisi dei ragazzi e quello anche del nuovo arrivato, che si presenta proprio come Pietro ( “Io non ce la do’ la mano agli sbirri”) e che prenderà poi il suo stesso posto in aula.

 

Il Regista

“Marco Risi cambia a seconda dei film che fa, si immedesima nelle situazioni che racconta sul grande schermo”

Figlio del regista Dino Risi, Marco nasce a Milano il 4 giugno 1951.

Figlio d’arte, dunque, situazione che paradossalmente può essere vista sia come un vantaggio sia come una maledizione.

In un’intervista con Clara Caroli del 1988, Risi sottolinea come preferirebbe evitare l’argomento delle parentele importanti, nonostante abbia un rapporto bellissimo con papà Dino:

“[…] ho un rapporto magnifico con mio padre. Lo stimo e come persona e come uomo di cinema. Spesso, mentre sto girando un film, capita che mi domandi che cosa ne direbbe. Non per far confronti, ma perché lo reputo intelligente. Rispetto e considero con attenzione le sue opinioni. Ma, ora mi chiedo, per quale motivo con i giornalisti occorre che parli sempre di lui ?”

La differenza tra padre e figlio si nota in ogni caso da come quest’ultimo si distacca dalla “romanità” plateale del primo, attraverso un’ “ironia sottile, i discorsi pacati, l’equilibrio.”

Esordisce con un documentario trasmesso in Tv nel 1977, “Appunti su Hollywood” e solo più tardi, nel 1982 debutta come regista nel film “Vado a vivere da solo”; seguono altre due commedie:  “Un ragazzo e una ragazza” e “Colpo di fulmine”, entrambe interpretate da Jerry Calà.

Dirige poi “Soldati, 365 all`alba” (con Claudio Amendola e Massimo Dapporto), cruda rappresentazione del servizio di leva in Italia.

“[…] era divertito quando presentò “Vado a vivere da solo”, dolce per “Un ragazzo una ragazza”, molto convinto della validità di un amore tra un trentenne e una bambina per “Colpo di fulmine”. Ed ora che presenta Soldati-365 all’ alba, il suo quarto film, sembra aggressivo, provato, con un linguaggio un tantino, come dire, da caserma. “Intanto vorrei che sia ben chiaro che il mio film non è comico, nel senso che non appartiene al filone “Pompieri”, “I carabinieri” eccetera. Non è una presa in giro dell’ arma, è il racconto di una realtà”. Sette ragazzi partono per il servizio militare, ognuno da diverse regioni d’ Italia, da famiglie di diversa estrazione sociale. Si ritrovano tutti in una caserma del Friuli, a pochi chilometri dal confine con la Jugoslavia; c’ è l’ emiliano, il siciliano, il sardo, c’ è il lombardo, il napoletano, quello che non si sa bene da dove venga. E c’ è il romano, quello vero, sanguigno, sicuro di sé, di Pietralata, uno dei quartieri popolari della capitale.”

Successivamente è la volta di “Mery per sempre” (1989) e “Ragazzi fuori” (1990), due pellicole che si collocano rispettivamente in un periodo, quello degli anni ’80 e ’90, di stravolgimenti per il cinema italiano che produce sempre meno film: dai 163 del 1980 a 117 nel 1989 .

Non solo titoli a ribasso, ma anche il contesto storico in questione, per un’Italia che negli anni ’80 “usciva dal delitto Moro, e dagli anni di piombo, furono gli anni dell’era Craxi e della Milano da bere” , con la sua voglia di tornare a spendere, con la nascente televisione privata di Silvio Berlusconi e con lo spazio occupato sempre di più dalle pellicole Hollywoodiane.

Il film “Mery per sempre” di Risi dunque, in una decade che sembrava quasi voler porre fine al cinema che collegava insieme realtà sociale e politica, indica “una possibile nuova strada espressiva alla fine del decennio (…)”.

Il regista stesso sottolinea questa volontà di cambiamento nella già sopracitata intervista di Clara Caroli : “(…) Tra poco uscirà Meri per sempre, storia dura e drammatica sul carcere minorile Malaspina di Palermo, con Michele Placido nel ruolo principale Sarà una pellicola di grande impatto, nella quale vorrei dimostrare che i rapporti interpersonali contano più che le istituzioni. Per il linguaggio crudo e violento usato dai bambini, prevedo che sarà vietato ai minori di diciotto anni. E il fatto non mi dispiace, poiché sarà un film tutto per il cinema. Una sfida al piccolo schermo. Oggi, il nostro lavoro è in gran parte finalizzato alla televisione. La tv paga perché si producano pellicole per tutti. Per una massa considerata, a torto, semplice e sciocca. Io provo a cambiare.”

Tutto questo diventa un “punto di riferimento per il neo-neorealismo”, con Risi che mette in ballo un gruppo di attori quasi tutti non professionisti.

Anche con “Ragazzi fuori” Risi ha fatto un’ “operazione cara al neorealismo”, con la macchina da presa che ci mostra questi ragazzi nella loro vita, nel loro fare e non fare, stavolta senza la guida del prof Marco Terzi; dopo il carcere, nulla.

Ai ragazzi forse non resta che “ripiombare nella più assoluta desolazione di atteggiamenti e aspettative”.

Nel 1991 c’è un altro film-denuncia, “Muro di gomma” , che si interroga, ricostruendo la vicenda, sulla strage di Ustica.

Segue un periodo di produzione intenso per il regista, che va dal ritorno alla commedia ( “Nel continente nero”, con Diego Abatantuono) a “Il branco”, in cui si consuma uno stupro e si osserva la violenza di una generazione ormai perduta, allo sbando.

Nel 1992 fonda insieme a Maurizio Tedesco la casa di produzione “Sorpasso film”.

Nel 1996 scrive e cura la regia di “Bambini al lavoro”, incentrato sul triste argomento del lavoro minorile.

Arriva poi il turno de “L’ultimo capodanno” (1998), un film ad ambientazione noir tratto da un racconto di Niccolò Ammanniti, “Tre mogli” (2001) , una commedia tutta al femminile, che assomiglia un po’ al cinema del padre, tra commedia all’italiana, satira e giallo, per poi approdare nel 2007 con “Maradona- La mano de Dios”, nato da una coproduzione tra Spagna e Argentina.

 

I “Malacarne”, i dannati di Palermo

“Io sono cattivo, sono un Malacarne”.

Queste le parole dure da digerire, difficili, che dice Pietro al professor Terzi quando confessa che vuole evadere dal carcere.

Un destino già segnato il suo, come se fosse una maledizione di cui egli è conscio e consapevole.

“Chi nasce tunnu non può muriri quadrato”, aggiunge più di una volta in più occasioni.

Ma chi sono i “Malacarne”? In senso figurato, indica una persona malvagia, cattiva, ma qualche tempo orsono questa accezione indicò quella che ora è chiamata carne di bassa macelleria.

Tutti i ragazzi sembrano come rassegnati, uniti da un fil rouge che li lega a un destino malandato, dove l’unica certezza possibile è il carcere; l’immagine che vediamo in questa pellicola è quella di una gioventù allo sbando, disperata, “vittima e carnefice di una sottocultura criminale e della violenza che è parte integrante della stessa società” e di cui i ragazzi sono vittima e carnefice allo stesso tempo.

Claudio dopo aver giustamente denunciato le molestie da parte di un compagno, Carmelo, si ritroverà ad esercitare di nuovo la violenza una volta che quest’ultimo rientrerà nel dormitorio, proprio quella violenza dalla quale avrebbe voluto evadere.

Un cane che si morde la coda, insomma.

Pietro  continua ad entrare e uscire dalla galera, mentendo anche alla sua fidanzata; quando evaderà verrà ospitato dal professore al quale ruberà una mazzetta di lire, nonostante il progressivo avvicinamento dei due; in quella realtà, senza relazioni vere, senza aver mai conosciuto chi “usa la testa invece delle mani” gli amici veri sono solo “i piccioli”.

Lui non sa leggere né scrivere, ma sa finire un puzzle numerico in pochissimo tempo: fatti e non parole, dunque, ma nemmeno capacità di vedere “oltre”, di percepire le proprie potenzialità, oscurate da una cortina pesante che fa vedere tutto nero.

Inoltre Mery, denigrata dal padre e dai fratelli perché vorrebbe aiutare la madre a tavola, sintomo di una società che ha le sue regole e i suoi ruoli ai quali non si può soprassedere.

Usa violenza allo stesso modo con un cliente occasionale e anche Mery entra in carcere, per ultima, ma è come se fosse in isolamento da tutta la vita: come dice al professor Terzi: “Io non sugno né carne né pesce: io sono Mery, Mery per sempre.”

Tutti i ragazzi presi realmente dalle strade di Palermo ( tranne ovviamente Claudio Amendola, attore professionista) , hanno meno di diciotto anni e la strada tatuata in volto, di cui conoscono le regole e un codice d’onore, che li ha preceduti e non si potrà mai cambiare: sono, insomma, “i figli di una società piegata e corrotta dalla povertà e dalla mafia, dal ricatto e dall’ omertà, e costituiscono la popolazione fittizia ma autentica del Malaspina, il carcere minorile di Palermo.

Ieri (1989) come oggi, 2017: i “Malacarne” non sono spariti con i due film di Marco Risi: questa volta a raccontarli  ancora c’è l’obiettivo della macchina fotografica di Francesco Faraci, un fotografo palermitano emergente che ha dato il via ad un progetto che porta lo stesso nome con cui Pietro definisce se stesso.

Faraci è andato nel ventre della sua terra natìa per cogliere gli sguardi dei bambini residenti in quartieri come lo Zen, Ballarò, Brancaccio, gli stessi da cui provenivano alcuni ragazzi del film.

Il suo reportage, durato tre anni, si compone di 70 scatti,  che servono a “scardinare i luoghi comuni e ritrarre l’altro volto di quelli che vengono chiamati malacarne: il loro essere bambini nonostante tutto, con la loro forza, la loro vitalità e l’energia.”

Francesco Faraci riesce ad entrare in contatto con questi bambini con la stessa modalità del professore Marco Terzi, penetrando nella loro cultura, parlando gli stessi “linguaggi” ( il professore è più vicino alla realtà dei ragazzi dopo aver letto la poesia “Er padre de li santi”; scoprire che anche i professori possono dire parolacce certamente è una grande conquista).

In un’intervista Faraci infatti afferma che “All’inizio nascondevo la macchina fotografica. La gente mi guardava con sospetto. Pensavano fossi un poliziotto, un assistente sociale in incognito. Non si fidavano. Ma io per fotografare avevo bisogno di essere talmente parte di quel mondo da sparire. Dovevano abituarsi alla mia presenza (…) ho trascorso intere giornate con i bambini: mangiavamo insieme, giocavamo e qualche volta, per guadagnarmi la loro fiducia, gli ho fatto anche da palo per piccoli furti”.

 

Dentro e fuori dal carcere: il “Rosaspina”

Ragazzi dentro, ragazzi fuori: Aurelio Grimaldi, l’autore del libro “Meri per sempre : l’amore, la donna, il sesso raccontato dai giovani detenuti del Malaspina di Palermo”, ci è entrato dentro fino al collo in questo istituto, che nel film assume il nome di “Rosaspina” (quasi a voler dare l’immagine di una cosa bellissima, come lo è la rosa, contornata però di spine, appunto, che feriscono,lacerano).

Aurelio , a quel tempo un giovane professore palermitano afferma di aver avuto “la netta sensazione di compiere un passo eroico”, scegliendo come poi farà Placido nel film come sua prima nomina proprio questo carcere minorile di Palermo, “nella città dell’ eroina, della mafia, dei duecento omicidi”.

Pur avendo girato durante il film gli interni dell’istituto a Roma e a Ostia (“impedimenti burocratici di cui gli autori non riescono a spiegarsi la ragione non lo hanno reso possibile” ), nel film traspare il senso di chiusura, di omertà, di una via di uscita che rappresenta al massimo il viaggio in un altro carcere minorile ( uno a Napoli, dove finirà Claudio, e l’Ucciardone dove andrà Natale Sperandeo, quello come dice lui “dei grandi”).

Le uniche parti illuminate sono il cortile esterno e l’aula dove fanno lezioni: il resto consiste in muri pesanti, neutri, corridoi e scalinate che in realtà conducono tutte verso lo stesso posto, la cella, bagni dove si consumano rapporti omosessuali fugaci in mancanza di una donna, consenzienti o no.

Anche l’albero che sta in cortile e che segna il passaggio del tempo (all’inizio ci troviamo in primavera/ estate, poi in autunno, con Pietro che guarda dalla finestra l’alberello ormai spoglio, poi ancora nella stagione calda, con il nuovo arrivato seduto al posto di Amendola e un’inquadratura fissa a fine film) sembra quasi portare una ventata di libertà al Rosaspina, ma è pur sempre ingabbiato lì, immobile, come loro.

Un articolo de “La Stampa” del 1993 descrive l’istituto con queste parole dure:

Cos’è il Malaspina, carcere minorile, se non la logica conseguenza della contraddizione che alberga nelle esistenze di piccoli criminali, capaci delle più inaudite atrocità, e – nello stesso tempo – vittime di violenze che vengono dall’alto?”

Fuori tutto invece diventa più luminoso, è vero, ma quando i ragazzi escono il cielo è quasi sempre nuvoloso, quasi a significare che il sole per loro non esce mai.

Il “fuori” però, diventa l’unico luogo in cui i ragazzi sono a contatto in qualche modo con i loro familiari (anche se le relazioni sono spesso inadeguate) e provano ad avere una vita “normale”, come per esempio fa Pietro, che si ritrova al cinema per vedere la ragazza di cui è innamorato.

L’unico caso di vita familare positiva è quella di un ragazzo Antonio, che per una licenza prima si sposa con la fidanzata e poi con quattro ore a disposizione va ad incontrare suo figlio appena nato all’ospedale, con una gioia che sovrasta di gran lunga la sua condizione di carcerato:

“E’ mio…è l’unica cosa mia, che ho mai avuto… E ridi,  ridi che sei nato, la vita è bella!”

Il resto dei ragazzi però non ha la stessa fortuna, alle spalle hanno tutte situazioni difficili: la mamma di Claudio e del fratello, che si intravede al commissariato durante l’interrogatorio è probabilmente una prostituta, la famiglia di Mery non accetta l’omosessualità del figlio, Pietro racconta di aver avuto la madre nel carcere femminile.

Emarginati, soli, indifesi: bambini fatti d’improvviso uomini per gioco-forza, ma che rimangono comunque tali, ancora inermi e fragili, assetati d’affetto, che in cuor loro vorrebbero trovarsi altrove, via, per avere speranza.

Quasi inquietanti a questo proposito, sono le emblematiche magliette che indossano alcuni protagonisti durante lo scorrere della pellicola, che recitano posti lontani, alcuni oltre nazione, o gruppi rock di fama internazionale.

Pietro, con la maglietta con su scritto “Val Badia” e un’altra dei “Judas Priest”; Claudio, “America”;  Natale, “Boy London”; e ancora “People who surf”, “Los Angeles”.

 

L’amore, il sesso, le donne, l’affettività

Il film si apre in una via scura e probabilmente malfamata di Palermo (i muri scrostati, l’immondizia a terra) e le luci di un auto che andranno poco dopo a schiantarsi contro una vetrina; è il fratello più piccolo di Claudio Catalano a guidarla, il ragazzo che poi finirà al Rosaspina.

Claudio e il fratello iniziano a trafugare i vestiti dai manichini di un negozio che contrasta molto con l’ambientazione esterna, così luminoso e dai colori vivi, ma mentre il fratello più piccolo si riavvicina all’auto, Claudio rimane a palpeggiare un manichino da donna pronunciando parole gergali e cariche di desiderio sessuale.

Poco dopo vediamo Pietro, dopo l’uscita dal carcere, recarsi con un amico  in una bettola dove l’aspettano due prostitute, una fuori, che controlla, e una dentro che li aspetta, il tutto accompagnato da termini simili a quelli che pronuncia Claudio.

Due situazioni in cui lo spettatore inizia ad intuire una figura femminile malandata, per lo più assente, le cui relazioni con l’uomo si limitano all’aspetto sessuale, tralasciando quello affettivo di madre, di moglie, di amica.

La mamma di Claudio Catalano e del fratello, durante l’interrogatorio, la intravediamo senza, tra l’altro, sentirla parlare; non difende il figlio nemmeno quando il poliziotto inveisce in modo rude contro i figli, o li strattona per la collottola.

La sua reazione si limita a una smorfia, che potrebbe sembrare insofferente ma non riesce a trasmettere nulla.

La madre di Pietro è la grande assente: ne sentiamo parlare solo quando si confessa con il professor Terzi e di lei sappiamo soltanto che quando Pietro aveva sei anni si trovava nel carcere femminile.

Non ci sono altre notizie dopo questa rivelazione, Pietro infatti nel film muore solo,  senza una mamma che lo piange, con l’unica presenza del professore.

Nel film non si vede né si sente mai nominare la mamma di Natale e di tutti gli altri ragazzi; lo stesso discorso vale per i padri (padri inesistenti, oppure violenti, come quello di Mery, o mafiosi, come quello di Natale).

La famiglia come ombra scura alle spalle dei ragazzi.

Le uniche due figure femminili positive sono la mamma di Mery, che la difende strenuamente dalle grida e dalla violenza del padre e dei fratelli (“Lascialu stare! questo è figghio mio! Mio!”), pur sempre vittima di un sistema arcaico e maschilista che relega la donna a individuo inferiore, e la moglie di Antonio, uno dei ragazzi del Rosaspina, con cui ha intesse una relazione basata non solo sul sesso, ma anche sull’amore, come dichiara nel tema che svolge in classe; tuttavia anche lei è una figura che appare velocemente e altrettanto velocemente scompare: nel film non la vediamo nemmeno quando Antonio va a vedere il figlio in ospedale.

Donna come oggetto, donna come bersaglio di pulsioni erotiche, come oggetto lontano del desiderio, che i ragazzi cercano di esorcizzare intessendo relazioni intime coi compagni di cella (Carmelo nei bagni si rivolge così a Claudio: “Qua lo fanno tutti … e lo sai perché lo fanno tutti? Perché ‘cca, senza na’ fimmina, s’addiventa pazzi!”).

Non esiste la figura di donna come madre, come colei che difende e che dà affetto, amore, comprensione: l’amore allora i ragazzi lo cercano tra di loro, come quando Carmelo si appoggia con la testa sulle gambe di Claudio, o come quando gli dà una carezza nel sonno.

Amore come qualcosa che si compra e basta, e spesso nemmeno ci riesce a comprare l’amore, perché si è brutti (come King Kong, che nel tema che ha per argomento l’amore dice: “A me  mi sa che morirò senza aver baciato mai una ragazza, perché sono troppo brutto” ) e poi ci si illude, come succede a Matteo che va con una prostituta “non tanto giovane, e nemmeno tanto bella” e la pensa di continuo.

Amore e affetto desiderati ma inesistenti, forse le uniche cose  in grado di salvarli davvero: non a caso, Marco Terzi penetra nel loro mondo facendosi parte di loro, accettandoli per quello che sono quasi con amore paterno, prendendosene cura.

Amore che di certo ha provato anche Marco Risi, innamorandosi di questa realtà contenuta nel libro di Grimaldi, dando voce a chi voce non ne ha attraverso l’occhio benevolo della sua macchina da presa: “[…] ho lavorato anche nella convinzione che per cambiare la realtà sia necessario agire sulle radici, sull’inizio di ogni cosa, quindi sui bambini.”

 

“Placido, messo a confronto con i veri duri della vita, sa mescolare in una accorta mistura il velleitarismo della scelta iniziale del suo personaggio alla generosità e al coraggio delle sue decisioni finali. Ma soprattutto salutiamo in questo film il mestiere di Marco Risi e dei suoi complici in questa avventura, che sono riusciti a fare di un film di denuncia e non è poco un film da guardare.”