Di Beatrice Harrach (articolo precedentemente pubblicato sul blog Axis Mundi)
Incocca, tende, scaglia: il motto della “1^ Brigata aerea operazioni speciali” sintetizza alla perfezione il gesto fluido, preciso e lineare dell’arciere. Un gesto ipnotico, ripetitivo ed ordinato che contraddistingue chi tira d’arco e freccia da qualsiasi altro combattente. Un gesto che assieme all’arma si presta alle simbologie forti ed evocative della regalità e della conquista. L’arciere, che si trova al di qua del suo bersaglio — pur essendo spesso molto distante da esso — è già proteso nella traiettoria della sua freccia, che si impunterà laddove egli desiderava scagliarla. Questo, però, a patto che egli abbia buona mira e, nondimeno, che la corda del suo arco sia ben tesa. Queste suggestioni guerresche dovettero apparire evocative ed efficaci al filosofo dell’oltreumano, Friedrich Nietzsche, poiché ne trasse cifra velata di una parte consistente del suo pensiero filosofico.
La vastità e la complessità del pensiero nietzschiano, infatti, trovano una felice sintesi proprio nei simboli evocativi dell’arciere, dell’arco e della freccia; metafore che il filosofo utilizza spesso nei suoi principali scritti, tanto che nel Prologo dello Zarathustra, uno dei primi ammonimenti del Maestro è: “Guai! Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non scaglierà più la freccia anelante al di là dell’uomo, e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare” [1]. La voce attraverso cui Nietzsche canta la sua filosofia è quella dello Zarathustra/Übermensch in cui la denuncia del “Dio morto” diviene azione con la proclamazione dell’Oltre-uomo.
Affinché si possa conquistare la natura oltreumana è necessario che l’anelito interiore, la tensione della volontà, miri al di là dell’uomo stesso, come simboleggia efficacemente l’arciere che tende il suo arco. Nietzsche parla di uno Zarathustra trasformato da dieci anni di solitudine, trascorsi in prossimità del Sole; eremita in montagna, nondimeno divenne come sole egli stesso ed avvertì il desiderio di colpire coi suoi raggi gli uomini, di scendere verso di loro come il grande astro che tramonta infuocando l’orizzonte ansioso. La volontà di Zarathustra anela al Sole, Zarathustra diviene Sole; in questo modo la volontà umana è rappresentata magistralmente dalla corda dell’arco come il mezzo essenziale al raggiungimento dello scopo: solo la corda ben tesa può scagliare con vigore e potenza la freccia, esattamente come solo la volontà più indomita e pervicace può indirizzare con successo le forze verso l’obiettivo. Per il filosofo tedesco, questa immagine è fondamentale: la volontà ha la stessa tensione della corda e lo stesso desiderio bruciante della freccia che brama il suo bersaglio. Zarathustra, trasfigurato dalla sua esperienza ascetica, pronuncia parole pregne di volontà attraverso la metafora:
“[…] Oh, mia volontà! In te si curva ogni necessità, tu sei la mia necessità! Preservami da tutte le piccole vittorie! Tu provvidenza dell’anima mia, che io chiamo destino! Tu dentro-di-me! Sopra-di-me! Preservami e risparmiami per un grande destino!
E la tua ultima grandezza, volontà mia, risparmiala per la tua ultima impresa, — perché tu sia inesorabile nella tua vittoria! Ah, chi non soggiacque alla sua vittoria! Ah, a chi non s’oscurò l’occhio in questo ebbro crepuscolo! Ah, a chi non vacillò il piede e non disimparò a stare saldo — nella vittoria!
Perché io sia, un giorno, pronto e maturo nel grande meriggio: pronto e maturo come metallo incandescente, come nube gravida di folgori e una mammella gonfia di latte:
pronto per me stesso e per la mia volontà più occulta: un arco anelante al suo dardo, un dardo anelante alla sua stella:
una stella, pronta e matura nel suo meriggio, incandescente, trafitta, resa beata da distruttori dardi del sole:
un sole e una inesorabile volontà solare, pronta a distruggere nella vittoria! […]” [2]
Questo significa, dunque, che in Nietzsche il bersaglio (il superamento di sé, l’obiettivo) colpito, non resta uguale a prima, ma proprio perché raggiunto dalla volontà che lo aveva preso, letteralmente, di mira, si trasfigura in qualcosa di nuovo, poiché egli era il desiderio ed ora, colpito, diviene egli stesso la volontà di ciò che lo colpisce, come la stella che diviene gioiosamente essa stessa “volontà di sole” quando viene trafitta dai raggi. La volontà umana è prima rappresentata dalla tensione dell’arco, ma immediatamente supera se stessa nel volo inebriato della freccia, che rapidissima sconquassa l’obiettivo e, raggiungendolo con invereconda forza lo feconda, rendendolo espressione della sua essenza.
La simbologia dell’arco non si esaurisce, tuttavia, nella rappresentazione della volontà. L’arco è, infatti, un’arma che per sua natura permette di mantenere la distanza, e tale distanza viene colmata dalla freccia. La distanza è caratteristica aristocratica e distintiva. Questa caratteristica conferisce una sorta di superiorità, quasi morale, all’arma e quindi a chi la possiede (“Dire la verità e saper adoperare l’arco e le frecce” [3]), poiché non deve approssimarsi al suo nemico per guerreggiare, ma può distruggere anche da lontano, senza guardare troppo a lungo nell’abisso dal quale Nietzsche mette maliziosamente in guardia. La peculiarità dell’arco, arma da lancio, caratterizza fortemente anche l’arciere, lo rende differente dagli altri, più nobile e distaccato, tanto da far proclamare da Zarathustra, nelle varie esortazioni a combattere, che “Solo chi ha la freccia e l’arco è capace di assidersi silenzioso: tutti gli altri sono chiacchieroni litigiosi” [4]. L’arciere in questo senso è davvero un guerriero — per vocazione spirituale — di contro a colui che fa il soldato.
La corda ben tesa, dunque, conduce ad esiti magnifici e grandiosi, e solamente i migliori, in grado di tendere il proprio arco, porterebbero perciò ad affermarsi ed emergere; è proprio per questo che, secondo il filosofo, vi sarebbero stati, in almeno due occasioni, dei tentativi per “allentare” questa corda, in maniera tale da rendere gli uomini più deboli e manovrabili. D’altronde, la tensione è una condizione gravosa e difficile da tollerare, così come la libertà vera e propria, che richiede un grande sforzo per essere mantenuta, perciò questi tentativi ben orchestrati avrebbero portato i loro frutti ed infiacchito in maniera piuttosto diffusa la volontà di potenza. Si legge infatti in Al di là del bene e del male: Preludio di una filosofia dell’avvenire:
“Certo, l’uomo europeo sente questa tensione come uno stato di emergenza (inteso, qui, come situazione gravosa e penosa, che «allerta» i sensi): e sono già stati fatti due tentativi in grande stile per allentare l’arco, la prima volta col gesuitismo e la seconda con l’illuminismo democratico — come quello che con l’aiuto della libertà di stampa e della lettura dei giornali, potrebbe effettivamente far sì che lo spirito non sentisse più così facilmente se stesso come «emergenza» (come qualcosa che, appunto, è in tensione per emergere)! (I Tedeschi hanno inventato la polvere da sparo — tutto il mio rispetto! — ma poi hanno subito pareggiato il conto inventando la stampa.) Noi però, che non siamo né gesuiti né democratici e neanche abbastanza tedeschi, noi buoni Europei e spiriti liberi, liberissimi — noi ce l’abbiamo ancora tutta, l’emergenza dello spirito e tutta la tensione del suo arco! E fors’anche la freccia, il compito e, chissà? La meta…” [5]
Il concetto viene ribadito, ancora una volta tramite l’immagine dell’arco, sottolineando l’apporto devastante del “Gesuitismo” sullo spirito, specialmente su quegli spiriti d’eccezione ed aristocratici che per loro natura si elevano dalla “massa”, poiché “Le cose più cattive e pericolose di cui un dotto è capace, gli vengono dall’istinto di mediocrità tipico della sua schiatta: da quel gesuitismo della mediocrità che opera istintivamente all’annientamento dell’uomo d’eccezione e cerca di spezzare o — ancora meglio! — di allentare ogni arco teso. Allentarlo cioè con riguardo, con la mano che risparmia, naturalmente — «allentare» con pietà confidenziale […]” [6]. La corda allentata sembra in un primo momento giovare allo spirito, come una cattività che provveda alle esigenze primarie, tuttavia quella perduta tensione ideale e volitiva può essere, però, riconquistata mediante la solitudine, il superamento di sé stessi, l’abbandono dell’interesse per l’opinione comune, sicuramente carezzevole nelle sue promesse. Accostarsi alla filosofia del Nostro richiede una certa familiarità con le durezze dell’aria pura e forte, e con le vette più alte: nel suo Ecce Homo, Nietzsche stesso ricorda che:
“Chi sa respirare l’aria dei miei scritti sa che è un’aria delle cime, un’aria forte. Bisogna esser nati per respirare quell’aria, altrimenti si corre il rischio, non piccolo, di raffreddarsi, lassù. Il ghiaccio è vicino, la solitudine immensa – ma che pace illumina le cose! come si respira liberamente! quanta parte di mondo sentiamo sotto di noi!” [7]
Quando un’anima ha abitato “altri monti”, risulta insopportabile ai più: “Un cattivo cacciatore divenni io! Guardate com’è duramente teso il mio arco! È stato il più forte che l’ha teso a tal punto, ma ora guai! È pericoloso questo dardo, come nessun dardo — via di qua! Per la vostra salvezza…” [8]. E dunque, poiché la conquista di una volontà superiore porta orribile scandalo a chi non abbia la forza di tollerare la tensione feconda prodotta dalla volontà, è necessario prendere coscienza della propria diversità, di quel che si è divenuti: arcieri, cacciatori terribili per molti che ci abbandonano:
“Vi volgete indietro? — O cuore, sopportasti abbastanza, forte restò la speranza; tieni le porte aperte a nuovi amici! I vecchi abbandonali! Abbandona il ricordo! Se un giorno fosti giovane, ora sei giovane meglio! […] O meriggio della vita! Seconda gioventù! O giardino d’estate! Inquieta felicità di stare e scrutare e aspettare! Gli amici attendo, giorno e notte pronto, dove siete amici? Venite! È tempo! È tempo!” [9]
La gloriosa giovinezza, Nietzsche, la colse spingendosi oltre l’uomo ed oltre sé, scuotendo con implacabile foga la corda del suo arco, scagliando nell’arco della vita tante “sentenze e frecce” da oscurare il cielo. Eppure chissà fino a che punto dovette egli tendere la sua volontà, quando addirittura i muscoli del suo corpo iniziarono, come nervi di un arco ad irrigidirsi duramente, a tendersi nella paralisi estrema che, il 25 agosto 1900, lo condusse infine a scoccare la sua ultima freccia ardente nel mistero della Morte.
Note:
[1] NIETZSCHE F., Così parlò Zarathustra, 10
[2] Ivi, 252
[3] Ivi, 64
[4] Ivi, 49
[5] NIETZSCHE F., Al di là del bene e del male, 35
[6] Ivi, 159
[7] F. NIETZSCHE, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è in Opere di Friedrich Nietzsche, 1986 volume VI, tomo III, 266-267
[8] NIETZSCHE F., Al di là del bene e del male, 272
[9] Ivi, 272-273