Nell’ambito delle dispute teologiche del IV secolo una posizione di rilievo assumono le diatribe circa la natura del Cristo. La realtà dell’Incarnazione, esposta nei Vangeli e narrata da tradizioni orali e non dai Padri Apostolici, necessitava di un approfondimento razionale che fu portato avanti dai primi Apologeti e scrittori ecclesiastici.
La comprensione del Mistero dell’Incarnazione però non fu omogenea e varie correnti di pensiero si trovarono in disaccordo su questioni, al tempo ritenute vitali, di carattere filosofico, teologico, esegetico-scritturistico o semplicemente logico-dialettico.
In un primo momento l’emergente cristianesimo cercò di comprendere se stesso in dialogo col giudaismo, alternando continuità e polemica. Gli eventi di Palestina e la testimonianza sul Cristo richiedevano un novus che non era facile integrare con quanto era creduto in precedenza. Anche agli albori della Chiesa, già dagli anni ’50, la comunità riunita a Gerusalemme vedeva al proprio interno tendenze giudaizzanti, le quali non erano inclini ad abbandonare gli usi della Legge concependo il Cristianesimo come una forma peculiare di ebraismo, e paolinisti che cercavano una cesura più radicale con tutto quanto era tradizione giudaica.
Nel IV secolo le scuole cristiane di interpretazione teologica e cristologica erano principalmente quella antiochena, alessandrina, romana e cartaginese. La scuola di Alessandria, fondata da Panteno e di matrice neo-platonica, tendeva ad una lettura scalare della realtà, sul modello platonico, in cui l’Uno aveva le ipostasi del Mondo delle Idee e dell’Anima del Mondo.
La scuola di Antiochia, invece, puntava maggiormente sull’assoluta trascendenza di Dio, muovendosi sulla distanza tra ciò che è immanente in Dio e le sue creazioni.
In questo quadro troviamo la figura di Ario che con le sue interpretazioni del problema cristologico provocò una delle maggiori controversie del secolo, che portò al primo Concilio ecumenico della Chiesa, svoltosi a Nicea nel 325.
Ario era di scuola alessandrina e la sua dottrina si può ricomprendere all’interno di questo orizzonte. Tuttavia numerosi studiosi hanno rilevato influssi antiocheni (il maestro di Ario fu Luciano di Antiochia), specialmente nell’interpretazione esegetica letteralista della Scrittura, come si può desumere dai suoi stessi scritti. La scuola di Alessandria infatti insegnava un metodo di esegesi allegorica, che Ario non utilizzava.
Certamente Ario non partorì da se stesso e del tutto le sue concezioni, essendo che anche lui stesso ci dice di aver “ricevuto queste conoscenze da coloro che partecipano della sapienza” (lettera Thalia).
Venendo alla sua dottrina, Ario sosteneva che il Figlio ed il Logos differiscono. Nel sua visione il termine “figlio” rimanderebbe ad una “creazione” che esclude una sua eternità ed una sua precedenza.
Il termine figlio è preso inizialmente alla lettera, senza lettura allegorica, per cui un figlio deve nascere e di conseguenza non può esserci sempre stato. Il Logos immanente al Padre è sì ab aeterno, ma il Logos prophorikós, o Logos proferito, è una parola del Padre pronunciata.
Perciò Ario utilizzò la formula “dal nulla” e fu il primo ad introdurla in riferimento alla generazione del Figlio.
Così va compresa anche l’affermazione: “Un tempo Egli non esisteva”. La cristologia ariana vede il Cristo come una creatura poiché il termine Figlio viene inteso come sinonimo di “creato”, “fatto”. In quanto creatura però non è una tra le tante ma la prima, per mezzo della quale tutto fu creato.
Secondo una esegesi di alcuni brani della Scrittura si interpreta il Logos proferito come il mezzo con cui il Logos immanente, o Mente Divina, ha creato l’Universo; perciò nell’arianesimo emerge una tendenza adozionista, dal momento che il Logos pronunciato diventa Figlio non perché abbia la sostanza del Padre, ma perché eletto da Lui alle qualità divine.
Consideriamo il fatto che nel primo giudeo-cristianesimo la Trinità, in un modello subordinazionista, era rappresentata con l’immagine di tre entità di cui la centrale molto alta e le altre due inferiori e che in alcune tradizioni (Pastore di Erma, Ascensione di Isaia) queste due figure sono identificate con Michele e Gabriele, secondo una già attestata attribuzione di Michele al Figlio e Gabriele allo Spirito Santo.
La parola “Angelo”, sia dall’ebraico Mal’akh sia dal greco Anghelos, indica una funzione di mediazione ed era inteso nella prima Chiesa per tutte le manifestazioni divine subordinate.
In questo senso si può parlare di “cristologia angelica” per la concezione di Ario, in quanto il Cristo assume un valore di mediazione subordinata rispetto alla divinità del Padre.
Ario perciò rinforza la assoluta trascendenza di Dio, da cui deriva una differenza del Figlio, che media con la Creazione, come creatura seconda del Padre. In questo senso il Padre crea il Figlio tramite il quale crea poi tutto il resto. In quanto Prima Creatura ha una natura angelica che lo distingue dagli altri angeli, una natura più che angelica: si potrebbe dire “iper-creaturale”.
Dio è dunque una sola persona, qui Ario la pensa come Sabellio, che ha la qualità della Sapienza. Tale attributo viene manifestato e post-manifestazione ne deriva una natura personale del Logos proferito che è il Figlio. Figlio perciò solo per analogia, poiché, come abbiamo detto, “fatto” e non “nato”. Il Figlio è dunque separato ed inferiore al Padre. La sua condizione gli consente così di assumere tutti gli attributi divini, tranne la natura (Ousia).
Le altre creature sono state fatte con la mediazione del Logos proferito, quindi il Figlio è l’unica creatura che non necessita di tale mediazione per esser creato: perciò unica e privilegiata Creatura divina.
Al di là della validità intellettuale di queste affermazioni, considerate dai teologi cattolici come popolari e contraddittorie, è necessario rilevare nella teologia di scuola ariana una mobilità della concezione del Logos che rappresenta un elemento eccezionale al tempo e lo avvicina all’uomo più delle altre concezioni coeve. Per questo, e per aver ripreso delle affermazioni da Paolo di Samosata, Ario fu accusato di “umanitarismo”.
Sedicente umanitarismo non va però inteso come una rivolta al riconoscimento della divinità di Cristo, quanto piuttosto come una concezione gnoseologica per cui l’uomo può concepire il Logos solo in quanto uomo.
Per questo motivo possiamo affermare che la concezione di Ario rivela una vicinanza del Cristo all’umanità espressa in un sistema teologico in cui si esclude il ragionamento sul Figlio preesistente alla Creazione, in quanto l’uomo muove l’esperienza del Cristo internamente alla Creazione stessa.
La natura del Figlio è pertanto prospettica, in quanto il ragionamento sul Logos è legato alla prospettiva umana, mentre la tendenza cattolica è sempre stata quella di trascendere la condizione umana appellandosi minuziosamente alla Scrittura biblica; molto più minuziosamente di quanto facesse Ario, che sembra procedere nei pensieri in modo più autonomo rispetto al dato biblico.
La mobilità del Cristo sta appunto in questo: che il Figlio, siccome è creato ed ha avuto un inizio, non ha la stessa sostanza di Dio. Perciò la sua natura è alterabile, diversamente da quella di Dio in se stesso, e dunque passibile di virtù e vizio, perciò la cui moralità è conquistata da un esercizio di libertà. Questo conferisce al concetto del Cristo una qualità estremamente mutevole e metamorfica.
Si può derivare dalla dottrina di Ario un’idea evolutiva del Logos. Prima non era, poi era, poi muta e può mutare, dunque cambia. Questa concezione evolutiva del Cristo lo avvicina ulteriormente alle metamorfosi umane e cosmiche. Ora gli studiosi, in generale, tendono a leggere l’arianesimo come una dottrina in cui le funzioni del Logos ricalcano il subordinazionismo ipostatico alessandrino e l’immanentismo preesistente antiocheno, ma riferendole ad un Logos distinto e creato e non immanente al Padre. Questa dottrina venne poi molto criticata per aver esasperato la subordinazione e la distinzione dei Logoi fino all’accusa di diteismo, quasi fosse implicita l’esistenza di due dei.
Per Ario il Logos immanente al Padre non è lo stesso Logos da lui creato, suo attributo di Sapienza ipostatizzato in una natura personale. Abbiamo però visto come Ario accentui la trascendenza divina, per cui l’immanenza di Dio è sinonimo della Sua trascendenza assoluta.
Ne deriva che il Cristo (Figlio) dal punto di vista della Creazione è immanente. La dottrina di Ario contesta qualsiasi possibilità della trascendenza del Cristo in quanto escluso dall’immanenza del Padre e dalla filiazione ontologica. Perciò il suo pensiero porta una visione immanentista del Cristo, unica nel suo genere. Al di là delle incoerenze dottrinarie e delle contraddizioni logico-dialettiche in cui sono spesso incorsi gli ariani durante le dispute pre e post-nicene, il portato positivo della concezione di Ario è stato soprattutto quello di favorire la concezione mobile, umanitaria, evolutiva e immanente del Logos.