DELL’EQUIVOCO DELL’EROE O DEL MONDO RISENTITO
DELL’EQUIVOCO DELL’EROE O DEL MONDO RISENTITO

DELL’EQUIVOCO DELL’EROE O DEL MONDO RISENTITO

Che si senta parlare di eroismo, di valori che trascendono l’individuo, di sacrificio et similia è cosa evidente. Ma che se ne senta soltanto parlare, vale a dire che si tratti di un (hegeliano) dover essere che non è mai, è un problema strano e urgente. Tutto questo parlare di eroismo denota una piega, paradossalmente, piuttosto antieroica. Che cosa intendiamo?

La fede

I popoli antichi che abbiano acquisito una consapevolezza tale da sentirsi individui di una polis ma al contempo individui, manifestano questa conquistata individualità attraverso i miti degli uccisori di draghi, o hanno all’interno del loro pantheon un dio, a capo, che abbia fatto cessare la forza bruta per lasciare crescere altre divinità. Questi, come moltissimi altri, sono esempi di miti dell’eroe. L’eroe, nel mito, è colui che si libera dal giogo del destino – il destino rappresentato dall’inconscio –, libera energia sotto un determinato aspetto e conquista così la sua (pur relativa) indipendenza. Il coraggio dell’eroe ha per fine scoprire una nuova emozionalità, una nuova capacità e consegnarla, oltre che a sé, al gruppo dei suoi uomini. La libertà, nel mito dell’eroe, equivale a responsabilità. Non solo perché l’errore è punibile dagli dèi e perché il mito dell’eroe parla anche di quanto l’indipendenza superba si ritorca sull’arrogante, condannandolo. Soprattutto perché responsabilità significa prendersi carico di qualcosa, assumere su di sé un compito. L’eroe è un uomo che ha un compito, uno scopo, un dovere: il privilegio di non poter delegare la sua esistenza ad altri. Anche se Nietzsche non parla di eroe, si riferisce all’uomo libero e nobile come a colui «al quale è consentito promettere». Intende così affermare che l’uomo forte è colui del quale ci si può fidare perché sa tenersi fermo di fronte alle circostanze mutevoli, nella parola e nello scopo. La felicità di un simile uomo è la sua responsabilità.

Per contro, in questo momento quando si parla di libertà non si tende a includere nel suo concetto la responsabilità. Anzi, quando parliamo di libertà generalmente intendiamo precisamente l’assenza di responsabilità e di incombenze, la liberazione dai doveri e la rimozione di ogni ostacolo. Il sogno ultimo del nostro gruppo umano si realizza nel non lavorare, nel non faticare, nello sperare di poter delegare ad altri le nostre faccende. Siamo uomini senza scopo e responsabilità; vorremmo che tutto fosse fatto per abbandonarci alla corrente del mare cullati dalle onde. Ma la parola e l’azione che seguono questa idea non sono affatto quelle dei miti e quelle di cui parla Nietzsche, perché a seconda della circostanza esse si trovano a mutare.

Allora, quando paragoniamo le nostre parole sull’eroismo alle gesta degli antichi, di gruppi cavallereschi, di gruppi guerrieri, di uomini stretti da patti d’altri tempi – indipendentemente da idealizzazioni o equivoci – facciamo un grandissimo errore di valutazione. L’uomo greco, il romano, l’indiano, il medievale erano uomini di fede. Non solo fede in un mito, vale a dire in un mondo colmo di significato dall’origine alla fine, e al cui interno sgorgano, a sorpresa, segni della divinità, ma anche fede nella propria parola, nella propria fermezza, nella propria capacità di affrontare le situazioni: uomini ai quali è consentito promettere, appunto. Fede nell’altro, perché l’altro non è minaccioso come lo è ora;  sembra un paradosso, immaginando guerre e scontri della storia. Anche noi oggi abbiamo fede, ma tendenzialmente solo nell’immagine che restituiamo all’altro, nel “cosa l’altro penserà di me”, per cui dobbiamo continuamente esibirci per sentirci vivi e non è detto che quello che esibiamo sia anche una virtù reale. Più abbiamo fede nella sola immagine, nella considerazione che si ha di noi, più siamo insicuri. Perché mostrare con maniacalità il corpo, le vacanze, le cose invidiabili se non per una profonda insicurezza e per il terrore di perdere l’appeal sugli altri? L’uomo nobile, dice ancora Nietzsche, va dritto per la sua strada, ha in sé una potenza creativa: è in contatto con una parte di sé più profonda, con delle emozioni importanti, che gli permettono di affrontare dei rifiuti, delle difficoltà, delle situazioni scomode e, appunto, di dare fede agli altri. Quando la vita è spesa a dare impressioni all’altro, quest’ultimo diventa, per il soggetto, un giudice insopportabile, davanti al quale non ci si può mai rilassare. Se l’altro è giudice non sarà davvero amico, non gli affideremo nulla di nostro. Andare da lui con il cuore spezzato, con una debolezza di qualche genere, darebbe occasione di prendersi gioco di noi, considerarci ridicoli, smettere di vederci “perfetti”. Viviamo un’ipertrofia dell’immagine che al mondo antico non appartiene.

L’eroe è tale perché riesce a “parlare” a quelle forze emozionali da cui scaturisce la voglia di vivere, di inventare, di progettare, di contemplare, di «fare bene». Egli è creativo. Fede nel mondo (mito), fede in sé (responsabilità), fede nell’altro (amicizia, patto): questo è l’uomo forte. C’è qualcuno che creda di essere così? L’uomo privo di forza creativa è un uomo che spreca il suo tempo a fuggire e distruggere, a passare di cosa in cosa senza lasciare dietro di sé nulla di costruito (o costruisce organizzazioni distruttive). L’uomo senza fede è un uomo risentito.

Il risentimento

«Tu devi» gli sbarra la strada, l’animale corazzato scintillante d’oro, e su ogni scaglia della corazza risplende in oro: «tu devi». Valori millenari brillano su quelle scaglie e così parla il più potente di tutti i draghi.

F. Nietzsche

Quando gli uomini vivono senza senso e senza forza creatrice, affidano la propria realizzazione al «tu devi». Non avendo stimoli propri – o meglio, non riuscendo a percepirli, a entrare in contatto con essi – sarà qualcun altro a dover insegnare loro che cosa desiderano. Sarà la carriera che è più riconosciuta, la macchina più stimata, la località più ambita, lo stile di vita più alla moda e così via. La felicità di questo tipo umano, del nostro tipo umano, consiste nel sentirsi guardato con ammirazione e magari invidia. Una felicità di breve durata, effimera, che cessa nell’istante in cui l’altro volge lo sguardo a un’altra novità o su un altro essere umano. L’altro oggi per noi funge da specchio, e se il suo sguardo cessa di illuminarci scompariamo anche noi. L’uomo è di necessità sociale, cioè, dipende sempre dal riconoscimento esterno, in svariati modi che qui non è possibile sviscerare. Ma questo uomo, l’uomo del risentimento e della forza distruttiva, ha bisogno di essere costantemente guardato, perché da dentro non scaturisce quella forza erotica che genera l’eroe di cui parlavamo. Certo che proviamo sempre delle emozioni rispetto allo sguardo altrui, ma dovremmo provare delle emozioni di felicità anche stando con noi stessi, dovremmo sentirci capaci di realizzare qualcosa di bello, di dare un contributo al mondo, anche nel gesto quotidiano. Non si tratta di imprese, perché lì giochiamo sempre sulla gloria – sullo sguardo altrui – che verrà di ritorno. Parliamo di gioia della vita quotidiana, delle mansioni, delle cose più semplici fatte con passione, con il desiderio di farle bene. Chi è capace di dire questo? Chi invece aspetta con ansia l’altrove? La vacanza, la pausa, la festa, il viaggio, la distrazione, l’impresa dei sogni, la fine del “qui e ora” in nome di qualcos’altro? Cioè, trascorrere la propria vita immaginando di viverne altre, perché quelle sì, saranno felici! Senza capire che nessuna lo è, sin tanto che questo è il focus adottato. Viviamo del futuro immaginato, senza essere davvero presenti alla nostra realtà. Questo comporta infelicità e incapacità di cambiare.

Quando accade questo, solitamente avviene un’altra cosa: l’insofferenza verso la propria vita viene proiettata fuori. È colpa di qualcun altro se ci si sente insoddisfatti. Del genitore, del professore, dell’arbitro, della scuola, della società, degli americani, dei giapponesi, dei comunisti, dei fascisti e degli ebrei. L’uomo infelice, che non è disposto a conoscersi davvero, trova sempre un nemico, ne ha tremendamente bisogno. Per lui il nemico non è l’accidentale, ma è l’elemento essenziale che definisce la sua vita. La sua vita diventa sopportabile quando trova un nemico a cui addossare ogni male. Egli si sente in catene e vorrebbe il mondo in catene: non vede la sua ombra alle spalle di tutte le categorie che detesta tanto. Questa proiezione si chiama risentimento. Un sentimento di rimando, di riflesso, che non scaturisce liberamente come sgorga l’acqua da una fonte, ma si tratta del rimestio di acque torbide e sporche. Chiediamo al risentito – quello dentro e fuori di noi – che cosa farebbe al posto di chi odia; chiediamo di dare una risposta propositiva. Egli non l’avrà. “Questo è il male del mondo”:” bene, suggerimenti?” Non vi sarà altra risposta che “bisogna distruggere quella categoria”. Quando quella categoria sarà distrutta immagina di poter essere felice. Ma non è così. Non lo è per due motivi: il primo, è che la categoria che disprezza tanto è una parte di sé proiettata all’esterno. Il risentito, a farvi caso, si comporta spessissimo nella maniera con cui denuncia le categorie che detesta. Questo accade individualmente, nei casi di oggi, ma anche storicamente, nei grandi movimenti politici. Così vediamo l’anticapitalista, che nel suo piccolo vorrebbe distruggere i privati, comportarsi da capitalista, non appena ne abbia occasione. L’antirazzista comportarsi da razzista. Il tradizionalista invischiato nelle peggiori malattie della modernità. Il “puro” lasciarsi andare alle bassezze più terribili. “L’uomo dell’ideale” cedere a compromessi immediati. O ancora, in grande: il sovietico che doveva finalmente liberare le masse lavoratrici le ha messe ancor più in catene. Il nazista che doveva ripulire la Germania dagli   atteggiamenti  “americano-bolscevico-giudaici”   si   è   comportato   da   sopraffattore,   da tiranno, da avido. Ha distrutto popoli, tiranneggiato come poche volte si è visto nella storia e ha raccolto oro a destra e a manca, persino dai denti degli ebrei. L’uomo risentito è l’ombra di sé stesso, una marionetta nelle mani di forze che si prendono gioco di lui.

Il secondo motivo per cui quest’uomo non sarà felice nemmeno dopo aver annientato la categoria che lo disturba è che non ha niente a che vedere coi suoi problemi più profondi. Tolta di mezzo la prima, allora, ne inventerà un’altra. Posto che la sua felicità, la sua capacità espressiva e creativa non dipendeva da quella, e che non sarà cambiato nulla rispetto a sé stesso, dovrà inventarsi un’altra teoria dentro cui riversare le sue noie. Nel frattempo, la sua vita rimane infelice e intessuta di relazioni negative e soffocanti. Il risentito non riesce a pensare al bene, al fare bene: il risentimento è la proiezione del proprio male, della propria ombra, del difetto che non si vuole guardare. Risentimento è forza distruttiva e non creativa. Imparare a distinguere un atteggiamento risentito da uno nobile può cominciare con un’osservazione abbastanza semplice: serve osservare se le energie siano rivolte verso scopi positivi oppure verso scopi negativi. Bisogna però stare attenti a non utilizzare anche questa suggestione al modo del risentito. Vale a dire: non intendiamo affatto che tutte queste categorie (x,y,…) sono risentite mentre noi (quale che sia il “noi”) siamo puliti, puri, propositivi. Non è vero. In ciascuno di noi risiede la malattia del risentimento, sicché proiettarla unicamente sugli altri è un ottimo indizio del proprio risentimento.

L’antieroe

Se seguiamo le suggestioni tratte fin qui sembra quasi che, contrariamente a tante aspettative, ciò in cui ci identifichiamo sia, più che un eroe, un antieroe. Le frasi “eroiche” ad effetto che abbiamo fra le labbra e che indicano il sacrificio, la fatica e la nobiltà, stonano abbastanza all’interno del modo in cui siamo soliti vivere e ai modelli di relazione con noi stessi e con gli altri che abbiamo assunto. Pensare ad esempio che l’etica del capitalismo appartenga a un gruppo soltanto di persone, siano esse identificate in una classe sociale o in una etnia, fa abbastanza sorridere. Un semplice esame di coscienza su “cosa faremmo noi se…” basterebbe a chiudere tante ipocrisie e aiuterebbe a scoperchiare il vaso di Pandora. Sarebbe anche un modo di affrontarlo davvero e combatterlo, il capitalismo.

In ogni caso, è meglio che il nostro ideale, almeno a parole, riconosca quei valori piuttosto che li misconosca totalmente: quantomeno astrattamente, fuori dalla realtà ma nell’immaginazione, sopravvivono. Il rischio, per contro, è che la retorica, come quella dell’eroismo, diventi alle volte una maschera per coprire e magari compensare ciò che compiamo nella realtà. Ci comportiamo da risentiti, però quelle parole danno una parvenza di altro, come a raccontarsi una bella storia in cui credere per non credere invece a quella parte di noi che ci indica l’errore. È molto semplice cadere in questo, e il Novecento ha fatto scuola. Se i miti dell’eroe, al principio della nostra civiltà, hanno compiuto il miracolo dell’uomo che si libera dal destino e, grazie al sole che finalmente splende, la sua coscienza si emancipa a realizzare grandi cose, adesso, eclissati i miti, compiamo una regressione. Non perdiamo la coscienza al modo di un uomo adombrato dalla forza energetica della participation mystique, cioè dell’onda emotiva che muove gli uomini senza individualità all’unisono, come uno stormo di uccelli in volo a fare un solo corpo inconscio. Perdiamo la coscienza in un’altra maniera: perdiamo la creatività e la capacità di essere brillanti come gli uomini dalle mille virtù che abbiamo ammirato in passato, siano essi nomi noti o spariti nella storia. La condanna che ci attende, a differenza dei “primitivi”, è persino peggiore: la nostra non è una perdita che riconduce alla culla della natura, che riaccoglie nell’inconsapevolezza e nell’innocenza un suo figlio ancora piccolo. La nostra perdita è la distruzione più feroce, perché si dispiega agli occhi di una coscienza impotente e incapace di reagire. Allora, forse, il ciclo eroico di cui l’uomo ha bisogno non si è concluso. Deve soltanto fare attenzione a chi insegue, perché credendo di essere mosso da un mito rischia di essere al servizio della parte di sé più distruttiva e crudele; la quale, invece di avvicinarlo alla festa dell’Olimpo, lo conduce tra le oscurità del Tartaro.