Wolfgang Borchert e le macerie dell’anima
Wolfgang Borchert e le macerie dell’anima

Wolfgang Borchert e le macerie dell’anima

Di Lorenzo Angelaccio

All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, la Germania era ridotta a un cumulo di macerie. I bombardamenti delle forze inglesi e statunitensi, iniziati a partire dal 1942 e prolungati fino al 1945, polverizzarono letteralmente gran parte dei centri delle maggiori città tedesche, in particolare di Berlino, dove in certi quartieri la devastazione arrivò a toccare vette del 70%. A partire dal maggio del 1945, la Germania fu un Paese del tutto da ricostruire, e per questo alcuni studiosi hanno coniato il termine Nullpunkt (“punto zero”) in riferimento a questo momento della storia tedesca.

Figura simbolica di questo periodo è quella della Trümmerfrau, traducibile come “donna delle macerie” e riconducibile a donne che – come mostrano numerose foto d’epoca – si presero carico di ripulire le città tedesche dalle macerie dei bombardamenti, mentre gli uomini erano per lo più morti in guerra o ricoverati in ospedale. Alcuni studi recenti[1] hanno poi ridimensionato la portata effettiva di questo fenomeno, sfatando anche un po’ il mito costruito ad arte sia dalla Germania dell’Ovest, sia da quella dell’Est; anche se la figura della Trümmerfrau fu molto importante per dare un senso al nuovo popolo tedesco, il quale riconosceva nell’abnegazione e nell’operosità femminile uno sprone per ricostruire il Paese dalle fondamenta.

Prodotto culturale di questa completa devastazione, sia fisica che morale, è inoltre la corrente della Trümmerliteratur, traducibile come “letteratura delle macerie”, che già dal nome mostra il suo intento programmatico. Caratteristica tematica di questo movimento prettamente tedesco, inesistente negli altri Paesi e separato dal più ampio filone della letteratura del secondo dopoguerra, è infatti la presenza di paesaggi urbani popolati per l’appunto da macerie, in cui il reduce di guerra, tornando dal fronte, non trova più né la sua casa né la sua famiglia. Ciò riveste quindi un forte valore simbolico, in cui la perdita della casa e della famiglia simboleggia di conseguenza la perdita dell’identità, delle radici che l’individuo aveva prima della guerra. Nel reduce – figura letteraria tipica di questa corrente – si innesta perciò un forte senso di abbandono e di disillusione nei confronti del futuro: tutti sentimenti in cui il popolo tedesco sopravvissuto avrebbe potuto identificarsi.

L’autore più noto di questo filone è senza dubbio Heinrich Böll, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1972 e personalità di spicco del panorama culturale tedesco del secondo Novecento. Tuttavia, questo movimento letterario comprese anche autori considerati “minori”, caduti per lo più nell’oblio, ma che poco avevano da invidiare al ben più acclamato collega (almeno per quanto riguarda le idee e le potenzialità). Tra quest’ultimi è da citare Wolfgang Borchert, autore amburghese dalla breve e tragica vita.

Nato nel 1921 e noto principalmente per il suo dramma Draußen vor der Tür, Borchert è uno scrittore dalla vicenda molto particolare. Iniziò infatti a scrivere poesie da bambino, ma al contrario di altri talenti precoci, i suoi genitori non vedevano nessun valore artistico in queste opere, andate per lo più perdute. Una volta cresciuto, Borchert mise da parte le sue ambizioni letterarie in favore del teatro, di cui era un grandissimo appassionato. In particolare, il suo sogno era quello di diventare attore e di girare la Germania di palcoscenico in palcoscenico. Questo desiderio riuscì a concretizzarsi nel marzo del 1941, ma ebbe brevissima durata, poiché fu interrotto dall’arruolamento avvenuto il giugno successivo. Borchert fu quindi spedito sul fronte orientale, a combattere i sovietici in mezzo alla neve: esperienza che lo avrebbe segnato profondamente e che avrebbe provocato la sua prematura morte. Infatti, pur riuscendo a tornare a casa una volta terminato il conflitto, la sua salute già delicata era ormai compromessa. Costretto a letto, non sarebbe più riuscito a mettere il piede sul palco di un teatro e sarebbe morto nel giro di un paio d’anni, il 20 novembre 1947.

Tuttavia, nonostante la sua immobilità fisica, furono due anni di intensa attività di scrittura, in cui buttò giù febbrilmente tutte le opere che di lui sono rimaste: le poesie, i racconti e il dramma Draußen vor der Tür se non il suo capolavoro, comunque la sua opera più nota, apprezzata e studiata. Scritto in soli otto giorni sul finire del 1946, l’opera venne trasmessa inizialmente come radiodramma (un formato molto diffuso nella Germania dell’epoca, paragonabile agli odierni audiolibri) per poi essere messo in scena a teatro, per uno strano scherzo del destino, solo il 21 novembre 1947: il giorno dopo la morte dell’autore.

Draußen vor der Tür riscosse fin da subito un successo clamoroso, probabilmente poiché molti spettatori riuscirono a empatizzare con il protagonista Beckmann: reduce di guerra che, non trovando più una casa al ritorno dal fronte, affronta varie peripezie deludenti per poi gettarsi nel fiume Elba, dove effettivamente erano stati consumati molti suicidi in quegli anni. Tuttavia, il dramma – pur continuando a riscuotere un certo successo anche nei decenni successivi, e pur essendo oggetto di numerosi studi critici – sarebbe stato presto relegato al rango di opera minore, scritta di getto da un autore che dopotutto non veniva considerato chissà quale grande intellettuale. A questo giudizio avrebbe contribuito con tutta probabilità anche la stroncatura di Ladislao Mittner, autore della “bibbia” della germanistica italiana. Mittner, infatti, relegò il dramma di Borchert a un’imitazione pura e semplice delle opere espressioniste degli anni antecedenti alla Grande Guerra, di cui il pubblico, composto soprattutto da giovani, all’epoca non aveva più memoria. Altri critici si sarebbero poi accodati a questo giudizio contribuendo a gettare nell’oblio Borchert e le sue opere.

Tuttavia, al di là di queste considerazioni sul suo dramma, è nella prosa di Borchert che si nasconde il suo vero talento, nonostante lui stesso si sentisse molto più portato nei confronti della poesia e del teatro. Scritte in modo febbrile tra il 1946 e il 1947, le prose di Borchert comprendono quasi sessanta testi: la maggior parte a carattere narrativo, sul modello della short story americana (Hemingway avrebbe costituito il più grande punto di riferimento stilistico di Borchert), ma alcuni anche a carattere programmatico.

Tra quest’ultimi è impossibile non citare il bellissimo manifesto antimilitarista Dann gibt es nur eins, testo che sarebbe poi circolato nelle nicchie dei futuri movimenti pacifisti, in cui l’autore, attraverso il leitmotiv“Sag Nein!” (“Di’ no!”), fa appello alle professioni più diverse, appartenenti a tutti gli strati sociali, affinché si oppongano in maniera non violenta – proprio “dicendo di no” – a ogni forma di bellicismo. Molto commovente, anche in relazione ai recenti avvenimenti in Ucraina, la conclusione della prima parte del testo, in cui l’autore si appella alle madri di tutto il mondo:

“Tu. Madre nella Normandia e madre nell’Ucraina, tu, madre a San Francisco e a Londra, tu sulle rive dell’Hoangho e del Mississippi, tu, madre a Napoli e ad Amburgo e al Cairo e a Oslo – madri in tutte le parti della terra, madri nel mondo, se domani vi ordineranno di partorire figli, infermiere per gli ospedali da campo e nuovi soldati per nuove battaglie, madri nel mondo, allora non c’è che una risposta:

Dite no! Madri, dite no!

Perché se voi non direte no, se voi non direte no, madri, allora… allora…[2]

Come già anticipato, Borchert è un autore che sarebbe stato presto quasi del tutto dimenticato, sia a causa della sua morte prematura, sia soprattutto a causa dell’assenza, nella sua opera, di ogni riferimento all’Olocausto e di condanne esplicite allo sterminio degli ebrei: cosa che, nell’ottica della critica letteraria tedesca del secondo dopoguerra – molto legata, giustamente, al concetto di “colpa”[3] –, costituiva motivo di biasimo.

Tuttavia, come sottolinea anche lo studioso Roberto Rizzo nell’approfondito saggio a introduzione delle Opere di Borchert (pubblicate nel 1968 dalla casa editrice Guanda e a oggi la raccolta più completa, in italiano, della sua produzione), egli rappresenta il “simbolo di un’intera generazione perduta”[4], un autore tutto da riscoprire; e in certi racconti non si può non intravedere il suo potenziale, quello di cui Borchert sarebbe stato capace se avesse avuto a disposizione qualche anno di vita in più.

Per molti autori, scrivere rappresenta una sorta di eredità, un lascito testamentario a beneficio delle generazioni future, un modo per preservare nel tempo il proprio messaggio senza che esso vada perduto. Per Wolfgang Borchert molto probabilmente è stato così. Non è difficile immaginarsi questo ragazzo venticinquenne che, tornato dalla guerra in condizioni di salute estremamente precarie, consapevole della fine ormai imminente, si affretta a buttare giù i suoi racconti, le sue poesie e il suo dramma: tutti testi brevi, frammentari (poiché la malattia gli impediva di lavorare a lungo e su progetti di più ampio respiro), ma che sono riusciti a far arrivare il suo messaggio, la sua visione del mondo, a noi lettori contemporanei. E riprendere in mano oggi i suoi testi, leggerli e assaporarli, non vuol dire solo fare un viaggio indietro nel tempo, tra le macerie fisiche e morali di una Germania in ginocchio; vuol dire anche fare in modo che la sua ultima fatica, il suo sforzo eroico di far arrivare a noi i suoi testi, non sia stato vano.


[1] Tra i quali bisogna citare quello di Leonie Treber, Mythos Trümmerfrauen: von der Trümmerbeseitigung in der Kriegs- und Nachkriegszeit und der Entstehung eines deutschen Erinnerungsortes, Essen, Klartext, 2014.

[2] Trad. it. di Roberto Rizzo contenuta in Wolfgang Borchert, Opere, a cura di Roberto Rizzo, Parma, Guanda, 1968, p. 215.

[3] Si veda Karl Jaspers, La questione della colpa: sulla responsabilità politica della Germania, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1996.

[4] Rizzo, op. cit., p. XXXIII.