In morte di Giulia S.
In morte di Giulia S.

In morte di Giulia S.

Di Franz Trinchera

Scrivere questo articolo non è facile, ma non abbassare il capo, neanche di fronte all’oscurità, è un onore, e gli onori comportano oneri. Non è facile perché la tragedia di Giulia ha sconvolto nel profondo tutti noi. E non è facile perché non si può morire trucidati a 29 anni, non si può morire mentre si porta la vita in grembo, non si può morire per mano di colui che promette amore. Non si può morire così.

Eppure, l’omicidio di Giulia è la tragica summa di una lunga lista di tragedie, e purtroppo non sarà l’ultima, ne verranno altre, molte altre. Poiché la violenza che pervade la nostra società si è incistata dentro ogni singolo strato del tessuto sociale, tutto è violenza, tutto è sopraffazione. Ma è inutile liquidare il tutto dietro la vacuità di preconcetti astratti e di ideologie alla moda, quali le lotte di genere e l’intersezionalità. Sarebbe guardare il dito e non la luna, anzi, per rendere meglio l’idea, l’asteroide che ci sta colpendo.

L’uomo come essere sociale, essere comunitario, essere unito indissolubilmente agli altri in un dare e ricevere, in un modificare e modificarsi continuo è morto. È morto l’uomo portatore di idee, valori, istanze, emozioni e tensioni. Un uomo che piantava alberi pur sapendo che sotto di questi non si sarebbe mai potuto sedere, tale piacere sarebbe spettato ai suoi nipoti. Quel tipo di uomo è morto. L’uomo odierno non pensa al futuro, come non pensa ai posteri: la società moderna ha costretto l’uomo in un ammasso di dati e meccaniche aventi come solo scopo il godimento fine a sé stesso. E come si ottiene tale godimento? Vivendo solo ed unicamente in una lotta continua contro gli altri per nutrire costantemente il proprio ego affamato di profitto e di piaceri effimeri, piaceri che si esauriscono presto per generare nuovi bisogni in un continuo processo di tossicodipendenza, fatto come ogni tossicodipendenza da tolleranza, assuefazione e morte per overdose. Overdose che però, come in questo caso, non si limita solamente alla morte del soggetto “tossico” ma anche di chi lo circonda.

La società odierna ci bombarda costantemente di messaggi centrati tutti sull’egocentrismo, sul voler avere sempre ragione, su un relativismo totale in cui è giusto ciò che è giusto per me. Viene meno il dialogo, il capirsi, il cooperare, ciò che conta dopotutto è soddisfare sé stessi, vincere la maratona contro gli altri sette miliardi di esseri umani, che non sono e non possono essere alleati con cui costruire qualcosa di grande che vada oltre sé stessi, ma nemici che competono per lo stesso trofeo per cui competiamo noi. Un “mors tua vita mea” costante, in cui ognuno di noi è affannato a raggiungere l’agognata meta dovendo accoltellare alle spalle per non essere accoltellato, in cui l’altro, quando è ostacolo al soddisfacimento dei propri bisogni tossici, va eliminato senza pietà e senza rimorso.

Ed ecco che Alessandro, omuncolo, privo di ogni qualsiasi dignità, privo di quei valori quali l’amore, la solidarietà, l’empatia, ma ancora di più privo del senso di dovere rivolto verso colei con cui si condivide una relazione sentimentale e verso colui che sarebbe divenuto suo figlio, sangue del suo sangue. Ma in questa società ogni relazione sentimentale che non sia autoreferenziale è da considerarsi un ostacolo. I figli hanno senso solo come eventuale “bandiera” di normalità da sfoggiare in faccia agli altri per dire “ho fatto un figlio, l’ho fatto entro tot anni, ho rispettato lo standard” e poi avanti al prossimo step. E così di fronte alla passione per un amante, di fronte al soddisfacimento del proprio bisogno individuale non si pensa due volte ad assassinare due vite, cosa importa, dopotutto ciò che conta è poter essere “liberi”, perché è questo che l’omuncolo dice all’amante dopo l’omicidio “sono libero”. No, questa non è libertà, è la peggiore forma di schiavitù e bestialità che l’umanità abbia mai concepito e realizzato.

Alessandro non è stato semplicemente un carnefice, Alessandro è stato ed è il perfetto emblema di ciò che la società odierna ci richiede, un conglomerato di spietato egoismo, un falco tra colombe, uno squalo tra foche, poi lui ha calcato troppo la mano, è stato, diremmo con termini tecnico-aziendalistici che ormai sostituiscono ogni lessico umano, “iper-prestante”. Danni collaterali, difetti di fabbrica, tutto sommato messi già in conto, la produzione del “nuovo uomo” continua comunque. Non stupisce che di fronte agli inquirenti non abbia versato una lacrima, non stupisce che da giorni cercasse su internet in che modo far scomparire un cadavere, e ancor di più non dovrebbe stupire il suo giustificarsi con un “ero stressato”. Lo vedete l’egocentrismo? L’auto- focalizzazione? È a dir poco manualistico: il proprio status emotivo è una giustificazione valida per l’eliminazione di vita altrui. Il mio “essere stressato” in quanto mio, è superiore al diritto di vita del prossimo.

Devianze e criminalità sono sempre state presenti nella storia, ma mai come nei giorni nostri esse sono state normalizzate ed istituzionalizzate. Dopotutto il nome di Giulia verrà pronunciato solo finché qualcosa di nuovo e magari più tragico non renderà maggiori profitti alle fonti di informazione. Finito l’effetto “wow” si potrà parlare d’altro. Dopotutto da questa tragedia si sta già risucchiando tutto il sangue possibile, con giornali che fanno a gara per pubblicare la lettera scritta dalla sorella di Giulia a nome di Giulia verso Thiago il bambino mai nato in una sagra dell’auto-sciacallaggio incosciente dell’orrido. Perché contezza di ciò che si è diventati non se ne ha ancora. Perché la necessità di esprimersi, raccontarsi, esternare la propria intimità non può venir meno nemmanco di fronte alla tragedia.

Il dolore più grande è sapere che Giulia è e sarà, purtroppo, una delle tante. Compagna di morte di altre vittime di delitti che qualcuno azzarda definire “passionali”, ma anche compagna di morte di tanti ragazzi suicidi nelle università. Vittime tutti dello stesso tossico male che prende il nome di “società moderna”, quella società prestazionale in cui l’uomo ha senso solo come narcisistico nutritore di ego. Fatevi capaci che i “femminicidi”, le stragi nelle scuole e nelle strade, i suicidi tra i giovani non sono una malattia; sono solo un sintomo. Sintomo di un male ormai incurabile. Incurabile, perché la medicina viene spacciata per agente patogeno, e il reale agente patogeno viene spacciato per medicina.

Affinché Giulia potesse continuare a vivere e sorridere a fianco a un uomo che la amasse, stringendo tra le braccia il suo bambino, sarebbe bastato vivere in una società in cui i rapporti umani, il togliersi per dare, il convivere insieme armonicamente fossero l’obiettivo per la felicità e non l’ostacolo per quest’ultima. Ma vi rendete ben conto, che in questo nuovo mondo della prestazione aziendalistica globalizzata questa non è solo utopia, ma viene dipinta come distopia, perché non idonea a soddisfare le esigenze dell’uomo-azienda moderno.

La terra, ahinoi, non sarà leggera per Giulia e Thiago, perché presto sarà schiacciata dal peso di nuovi corpi. I muri che la società odierna costruisce per dividerci hanno sangue innocente per cemento. Chi comprende soffre, chi non comprende, volente o nolente, fa il gioco dell’assassino. Tutto crolla e la forza di pochi non può reggere le macerie, ma si resterà comunque erti, anche, e soprattutto, in memoria di chi, come Giulia e Thiago non ce l’ha fatta a restare in piedi tra noi. Rendiamo a loro e alle loro famiglie cordoglio e rispetto eterno, all’omicida rivolgiamo il nostro disprezzo augurando eterna vergogna ed eterno ludibrio, ed alla società che ha armato la mano assassina giuriamo invece lotta serrata e senza quartiere.

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