HOMO MECHANICUS
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HOMO MECHANICUS

Di: Andrea Leandro Giumetti

Riflessioni sulla natura umana

Come tutti noi ben sappiamo, la vita sul pianeta Terra è regolata da precise regole, o perfino leggi, dettate dal processo evolutivo. Questo avviene perché, come è evidente, la vita generalmente riesce a svilupparsi e prosperare solo adattandosi ad un preciso bioma evolutivo: il meccanismo letargico dell’orso, la muscolatura e lo scheletro flessibile dei felini, le catene feromoniche delle formiche e l’acuto olfatto dei cani sono tutti esempi di come il processo evolutivo selezioni e acuisca specialità affinché queste servano alla sopravvivenza di una specie a scapito di un’altra.

Eppure, sul pianeta Terra, la specie dominante è l’uomo, che di fatto manca di abilità fisiche assimilabili a quelle di cui parlavamo prima. Se siamo riusciti in questa mirabile impresa, è sostanzialmente perché siamo riusciti ad elaborare un modo per truccare le regole della partita evolutiva: la capacità di astrarre ci ha consentito di poter immaginare cose non esistenti, ed eventualmente di poter immaginare modi per renderle reali, e la socialità, in particolare attraverso il processo di codifica e decodifica del linguaggio, ci ha garantito la capacità fondamentale di tramandare le informazioni e le nostre scoperte, in maniera indiretta. Fin dal nostro “atto di Prometeo”, ovvero la scoperta di come preservare ed evocare il fuoco, la storia umana è stata segnata da una catena di continue scoperte tecnologiche finalizzate a superare i limiti biologici e ottenere la possibilità di sopravvivere, prosperare e tramandare alla posterità. Le tecniche di allevamento e di agricoltura ci hanno permesso di forzare la soglia di sostenibilità della popolazione normalmente possibile per un dato bioma, la creazione di strumenti compositi e di armi ci ha consentito di moltiplicare la nostra forza e dotarci di quegli strumenti offensivi e difensivi cui colmare la lacuna con gli animali maggiormente specializzati. E infine, come già detto, la creazione di società sempre più grandi e complesse ci ha consentito di poter tramandare e diffondere le conoscenze acquisite attraverso la sperimentazione ad altri, affinché un progresso sempre maggiore fosse possibile.

In quest’ottica, potremmo dire che i moderni campi della robotica complessa e della cybernetica siano nulla più che le ultime tappe di questa longa marcia, ma in effetti ciò non è del tutto vero: se il concetto di nobilitazione della macchina è sostanzialmente un prodotto dell’era tardo-moderna, con un picco ideale nelle teorizzazioni del movimento futurista di Filippo Tommaso Marinetti, la ricerca sistematica per la creazione di una macchina umana, della vita artificiale, è un concetto che richiede una riflessione più articolata. Modellare e dare vita ad un essere senziente a partire da materiale inerte è infatti un processo che afferisce al verbo “creare” che da un punto di vista semantico e filosofico, è un’espressione che è appannaggio unicamente delle divinità (o al massimo degli artisti, da cui la loro importanza nella storia umana): si tratta infatti di rendere “esistente” qualcosa che non “è”, laddove, di fatto, gli esseri viventi sono in grado, applicandosi attivamente e in prima persona, soltanto di plasmare materia che già “è” affinché prenda una forma definita. Raggiungere un simile atto creativo, all’infuori dei nostri meccanismi biologici, è un sogno ben radicato nella nostra Gelstadt, al punto che possiamo trovare traccia di questo desiderio di indipendenza dal meccanismo biologico, e anche di onnipotenza assoluta, già nel più antico mito scritto della civiltà umana: l’epica di Gilgamesh.

Gilgamesh era il re di Ur, un guerriero e monarca così glorioso e magnifico da causare invidia nel cuore delle divinità mesopotamiche. Non potendo sfidare in sicurezza re Gilgamesh, gli Dei crearono Enkidu, una creatura dalle fattezze umane, ma priva di ogni consapevolezza se non l’imperativo di uccidere il re. Enkidu è il primo androide della storia: benché sia fatto di carne e sangue, egli non è nulla più di una marionetta artificiale completamente sottomessa alla volontà dei propri creatori; secondo il racconto, Enkidu riuscirà a recuperare l’autocoscienza, e quindi a ricostruire la sua identità di essere umano ma solo dopo la scoperta delle donne e ripetuti rapporti sessuali. Abbandonato l’imperio di uccidere Gilgamesh, Enkidu diverrà invece amico fraterno del re, accompagnandolo nelle sue avventure, e arrivando perfino a sacrificarsi per proteggerne la vita, notabilmente durante una missione in cui il re si troverà impegnato a ricostruire l’ordine naturale che era stato sconvolto dagli Dei nella stessa creazione di Enkidu.

A mio giudizio, nell’epopea di Gilgamesh, possiamo trovare una superba rappresentazione della duplicità dell’animo umano: nel racconto avanzano di pari passo l’importanza di proteggere la natura umana e l’ordine naturale come la pulsione ancestrale a superare i limiti e i legami, esemplificata per l’appunto dalla creazione di una nuova forma di vita in cui imprimere ineluttabilmente la nostra forma fisica e psicologica. Ma naturalmente, noi umani siamo già in grado di “creare” vita attraverso la riproduzione biologica, allora perché affannarsi in questa spasmodica e inconscia ricerca della vita artificiale? La risposta sta nel fatto che la creazione artificiale è un atto creativo assoluto, in cui si modella dal nulla una coscienza a nostro piacimento che viene impressa in un simulacro vuoto: in altre parole, si stabilisce un vincolo di dominio assoluto nei confronti di una forma di vita che non solo è creata secondo il capriccio del creatore, ma è a questi completamente sottomessa, poiché non è il vincolo genitoriale quello che influenza “il neonato” artificiale, ma piuttosto il meno pesante e più soddisfacente vincolo tra possessore e proprietà privata. Possiamo godere di tutte le forme di potere possibili ed immaginabili su un essere senziente e dotato di coscienza, possiamo crearlo e distruggerlo per un semplice capriccio; in altre parole, possiamo proiettare la nostra limitata esistenza verso la condizione di divinità.

Tracce di questa ossessiva pulsione a renderci creatori possono essere ritrovate in molti miti folklorici, racconti letterari ed estratti religiosi: dal Golem della Quabbala, fino ai cadaveri posseduti da demoni del folklore cristiano balcanico, dagli Zombi del Voudoun alla creatura del Dr. Frankestein, da gli Uruk-Hai creati attraverso la scienza di Saruman il bianco, fino alle scope animate dell’apprendista stregone e così via… In tutti questi esempi, noi possiamo vedere il chiodo fisso per l’animazione di oggetti inanimati e per un atto creativo contro-natura, fosse questo dovuto ad un progresso scientifico o ad una mistica arcana, così come il fatto che generalmente tali atti abbiano conseguenze nefaste per i novelli Prometeo che cercano di scavalcare il confine dell’umano.