“A margine di un discorso incompiuto” – Ragionamenti sull’oggi e il domani del nuovo associazionismo – recensione sul Manifesto “Alla ricerca de Sole”
“A margine di un discorso incompiuto” – Ragionamenti sull’oggi e il domani del nuovo associazionismo – recensione sul Manifesto “Alla ricerca de Sole”

“A margine di un discorso incompiuto” – Ragionamenti sull’oggi e il domani del nuovo associazionismo – recensione sul Manifesto “Alla ricerca de Sole”

“A margine di un discorso incompiuto” – ragionamenti sull’oggi e il domani del nuovo associazionismo – recensione sul
Manifesto “Alla ricerca de Sole”

Recensione di Tommaso Muzzi

Diciamocelo sinceramente, è in movimento qualcosa, e lo diciamo non per ridondante retorica, ma per evitare che si finisca per dire che abbiamo di fronte un nuovo movimento.

In tempi non sospetti, ma è sempre un grande vantaggio poter fare appello alla propria memoria storica, abbiamo dovuto fare i conti con con un certo moto di pensiero sotto cui una larga maggioranza giovanile faceva finta di identificarsi; erano i primi anni del secolo XXI e per i corridoi dei magisteri educazionali, nelle folte schiere tra le vie cittadine e nei templi dell’ozio moderno si inneggiava univoci ad un motto che sembra diventato sempre più contraddittorio: no alla globalizzazione. Ricordo benissimo che si fumava, si ballava e si parlava, c’era una grande aggregazione ludica che permetteva comunque d’approfittare di dibattiti e di congregazioni; come quando il parroco dota la parrocchia di campetti da calcio e tavoli da PingPong per una funzione didattica, per permettere al giovane di accedere al suono dell’omelia e alla coscienza dei sacramenti. No cari signori, quei tempi non ci sono più e li abbiamo visti transumare senza la possibilità di poterli digerire, senza che la collettiva coscienza storica abbia avuto il tempo necessario per metabolizzarli. Siamo millenariamente in una nuova era, che pretende altri tempi, altre fruizioni ed altri valori ed è perentoriamente inutile cercare di illuderci di poter tuffarci in una cura anacronistica, in quanto non vi sono cure possibili ai tempi che corrono. Morti i grandi movimenti politici con i loro ideali, affievolite le religioni e relegate nel fanatismo barbarico, l’uomo antico, esposto ai mali moderni prova a rifugiarsi in cure personali. Si ripara in una cosmogonia simbolica, in esercizi fisici e spirituali, depreca l’onanismo eppure non riesce ad astenercisi, depreca la depravazione etica dei moderni strumenti di comunicazione eppure non riesce a gestirli, si mortifica, si disillude, ozia. è la morte dell’eroe, inteso come virtuoso moderno che avendo avvistato di lontano la luce che proviene dal profondo ieri, non riesce a tenerla accesa, come uno sciocco impanicato che sotto la pioggia battente prova a mantenere viva una debole fiammella tra rovi umidicci e rami in putrefazione. No signori, è inutile farci delle illusioni, la guerra è finita, non è mai cominciata o meglio non ha mai smesso di tormentarci, in quanto viviamo nei tempi delle grandi contraddizioni, nei tempi dei ripensamenti, delle idee mancate e ritrattate appena formulate, viviamo con un profondo senso di smarrimento in cui nessuno è in procinto di salvarsi. Nei primi decenni del ’900 ciò che terrorizzava il senso del sacro era un profondo materialismo dilagante, molti lo identificavano nel rosso del bolscevismo, ma non ha mai avuto un colore distinto, essendo sempre stato confuso nell’arcobaleno della mistificazione.

Vi era quindi chi miticamente accennava ad un tempo in cui ciò che era sacro veniva celato in attesa di tempi propizi. La domanda quindi sorge spontanea: per quanto ancora dobbiamo aspettare, per quanto dovremmo sperare in qualche escatologia esotica o in una sotterranea rivoluzione? Probabilmente moriremo tutti prima di saperlo, consumati in questo limbo, ricacciati nel peggiore dei gironi, insieme agli ignavi, per non essere parte di nulla, per aver costantemente ribadito con le nostre azioni che il vizio ha vinto, che non siamo stati capaci di nessun atto realmente proiettato “verso l’alto”, con tutte le inconoscibilità che questa ridondanza si trascina dietro. Perché è una certezza: una direzione qualsiasi non è virtuosa se non è Dio a tracciarla. Il Manifesto del Progetto Aurora “cerca il sole”, come una vecchia canzone dei Lingalad, un gruppo musicale ispirato ai romanzi del professor Tolkien. Cerchiamo il sole quando non ne possiamo più di stare all’ombra, ma c’è chi il sole lo trova verso le nubi che si vanno ad impantanarsi tra una fitta vegetazione, in monti che diventano dei rifugi psichici. Uniamoci per intenti, uniamoci per gusti, uniamoci per modi estetici e non per bieco utilitarismo. Il manifesto è una consacrazione al domani, è una bomba a mano tra le mani di un’ardito che esplode in coriandoli nel carnevale di Roma tra le righe del conte di Montecristo. La mano è inesplosa, e neghiamo ogni relazione con in vecchi movimenti culturali e di espressione, in realtà sembra che il movimento neghi l’espressione se non forzatamente legata alla strage di stato come istituzione. “Abbiamo una grande opportunità” è quello che si evince dal testo, l’opportunità è il caos stesso in cui la società sembra essere rotolata , perché se da un lato l’uomo virtuoso è invaso dalla superstizione di quello che presumibilmente sembra un attacco al senso più alto che diamo alla civiltà, dall’altro è la civiltà stessa che ha permesso questa degenerazione, è lei la matrice di tutto il male che da essa scaturisce. Ciò consente di intuire linguisticamente la possibilità che abbiamo di sfuggire al giogo civile, uscire dal civile, uscire dalla cittadinanza, dalla vita nella civitas: divenire primordiali. Attenzione però, leggete bene: non regredire ad uno stato primordiale, ma diventare primordiali, divenire cioè uomini nuovi dopo essersi scrollati di dosso tutta la fuliggine del rogo in cui vedremo bruciare la nostra borghesia civile. Non dobbiamo negare i tempi che stiamo vivendo, non dobbiamo assolutamente rimproverarci di vivere nell’oggi, qui siamo stati posti e qui dobbiamo cimentarci, anche se il pessimismo dovesse divorarci e l’artrite mentale rallentarci fini a spezzare la logica più elementare. No, “noi non ci piegheremo al nulla”, dice il manifesto, perché noi siamo già nel nulla, il vuoto di senso è tutto intorno a noi, veniva annunciato già nelle profezie e le tragedie che viviamo quotidianamente sono il nostro teatro. Viviamo in un imprecisato malessere, e ricerchiamo la speranza in una cosmogonia di Divinità animistiche che non possono morire, perché gli Dei sono immortali.

Trovare del tutto inappropriata la frase “l’uomo ha ucciso Dio”.

E paradossale, una sorta di gioco infanticida, attribuire la mortalità a ciò che per sentimento attribuiamo l’immortalità. Secondo una concezione buddista, una condizione miserabile va assecondata in quanto quella stessa condizione è transitoriamente necessaria per una progressione o per il suo contrario. L’Aurora chiede di aiutare il miserabile, dice quindi che se dovessimo incontrare un povero ubriacone che si trascina sul ciglio di una strada senza bene comprendere il pericolo che corre nell’essere svisto da un’automobilista, dovremmo fermarci, e raccattarlo da per terra, spostarlo verso il marciapiede e ricordargli che non è una bella cosa morire per nulla. Ed ecco il punto chiave di questa narrazione: Morire. La morte è l’ossessione dell’occidente, bisogna scongiurarla con preghiere e gestacci che ci rendono deformi. Come Uscirne? Viene spiegato a pagina 36 dove viene fatto accenno al relativismo, sopratutto quello culturale. Attraverso il relativismo culturale possiamo infatti accedere ad un sistema di giudizio che giustifica tutto, anche le azioni più ignobili laddove, nel perenne saturnale della società moderna, l’induzione al vizio non solo è legalizzato, ma è metodologia di insegnamento. Il perbenismo dilagante, la retorica dell’antifascismo e un senso sempre opprimente di un sessualismo patologico ci sta rendendo come dei tossicomani, non se ne esce, non c’è terapia, possiamo solo chiederci se quel sentimento suicida che bussa alla nostra porta sia al servizio del fallimento quotidiano o sia istituzionalmente l’idea di fallimento che ci hanno inculcato. Vogliamo morire, e lo vogliamo perché c’è una volontà che desidera che noi moriamo, che spariamo del tutto, che leviamo il disturbo. Questa volontà strisciante è perennemente dentro di noi, si manifesta e prende forma negli odiatori seriali, negli spacciatori riforniti da altri spacciatori, nella volontà di morte che pervade l’umano agire. Ecco perché Aurora per prima cosa deve ribadire la volontà nella vita. Vivere ed aiutare a vivere, resistere, anche e sopratutto nel disagio, perché se perdiamo l’occasione di cimentarci nella lotta, se noi fuggiamo il combattimento per paura della morte, che poi è la paura del fallimento e della sconfitta, allora quella volontà strisciante avrà stabilito il suo totale trionfo. Bisogna entrare nella paura, buttarcisi dentro, non rifiutarla, perché dalla paura affrontata nasceranno i più schiaccianti trionfi. Qui Aurora rifiuta il relativismo, il becero sofismo dei suoi principi, qui noi lo neghiamo con la virtù che fra tutte un Cavaliere dovrebbe imprescindibilmente possedere: Verità. Quando un uomo mente assassina una parte del mondo, il nulla stesso si nutre di menzogne e di negazione di tutto ciò che è vero, e la più grande minaccia per la pace è senza dubbio la disuguaglianza in dignità tra classi e tra singoli individui. Ecco perché la lotta politica ci conduce verso una differenziazione tra noi e loro, una circostanza pericolosa perché in mancanza di divise, il nemico si confonde con l’amico e l’unica maniera per scovarlo è far appello al senso metafisico, all’intuizione. Quello che chiediamo ad Aurora è di non fare dei parallelismi rischiosi, chiediamo formalmente, come chi impugna un foglio bianco presupponendo di sventolare leggi mosaiche, di evitare il conflitto interiore che ci fa vestire di sacco e ci sepolcra la testa di cenere per colpa delle “miserie del quotidiano”. Dobbiamo fuggire da questo comportamento proprio perché va vista come una benedizione il fatto di esserne sensibilmente afflitti. Chi non riconosce le proprie miserie non sarà mai in grado di emanciparsene.

Attenzione però, il vero patriottismo è nell’internazionale metafisica, la vera patria è nel confine territoriale al di fuori del confine della mente, laddove la mente non possiede confini determinanti se non nella degenerazione materiale delle cellule. La razza non esiste, o meglio esiste nei manifesti dello Yoga fiumano, la geografia è nella penisola, nella sua eccezionale bellezza antropizzante, nella sua natura agricola e pastorale, lì sarebbe un peccato mortale trincerasi dietro ad un razzismo qualsiasi. La patria è nel bambino lontano dalla patria che guarda il padre e dice, “vorrei essere dov’è la patria”. La patria è un’emozione, è un senso di pianto all’accenno di un suono lontano, ai fiati allegri tra le pelli di animali. La patria è la perpetrazione dell’essere senza avere la pretesa di avere la coscienza di essere. Agire come tale senza pensare di essere quel tale o qualcuno di specifico. Io non agisco per difetto ma esisto per pregio.

“La patria sono io”, direbbe un patriota di se stesso.

Ricordo tempo fa, che persone autorevoli confidavano in una Comunità Europea che avrebbe salvaguardato la nazione dalla corruzione e dal degrado, anche rinunciando al primato nazionale, laddove l’autogestione era di gran lunga un’opzione miserabile. Ma l’Europa ha finito per autogestire se stessa ed è proprio questo il grande merito che gli possiamo riconoscere, senza tener conto delle disuguaglianze etniche e del potere centralizzato dei grandi stati centrali, che rimangono eliocentrici anche se hanno perso notoriamente la casacca del fanatismo ideiscratico. Viva l’Europa che viene a sollevarci dai nostri vizi, dalla lascività di chi si sorregge sui sorrisi del mediterraneo, ma guai a quell’Europa che divine viziosa scoprendo il piacere del vizio. Successe anticamente ai Dori, e successe ripetutamente nei secoli ad altri invasori, perché l’alba o l’aurora di ogni popolo per sempre sarà avvizzita dal transito del tempo che intercorre la sua irresistibile ascesa al suo decadentismo. Bisogna ascendere per poter cadere ed è per questo che dobbiamo imparare a cadere, è la nuova narrazione, è un precetto orientale. Lo abbiamo visto nell’esempio giapponese, ecco perché l’uomo nazionale è un uomo autoreferenziale. L’esempio che portiamo è di come le grandi discipline da combattimento alla fine del diciannovesimo secolo, siano state sintetizzate in grandi macrosistemi adattabili ai tempi correnti. È questa la grande intuizione che ebbe Jigoro Kano, e non sappiamo se ne fu cosciente o meno, ma noi possiamo determinare che la conoscenza non è un asse permanente né una legge meccanicamente fissa, ma deve per forza fluttuare insieme alla progressione dell’esistere; è senza dubbio l’adattabilità a tutto ciò che ci circonda la più grande garanzia per la sopravvivenza, ecco perché anche la stessa idea di patria, in ogni senso, va intesa come “non determinabile”.

Più che chiederci se dovremmo conquistare il cosmo, dovremmo pensare ad approvvigionarci di fonti inesauribili di acque mineralizzate dalla natura. L’acqua è di per sé l’unico elemento che provvidenzialmente dona la vita. Se la luce non si unisse alla spazio e non ci fosse il tempo di libare l’acqua per il sacrificio, non esisterebbe nulla, ecco perché al cosmo scegliamo le foreste primordiali, così per poterlo contemplare accampati in una radura circondata da colonne di legno millenario. Bisogna imparare a fallire perché non impareremo mai a vincere se non abbiamo chiaro che la sconfitta non esiste: o si vince o si impara. Impariamo a cadere, impariamo a perdere, a rinunciare, ad accettare il rifiuto, l’insulto, l’abbandono, il diniego, la calunnia a la diffamazione; accettiamo l’ingiustizia, perché è certo, di tutto c’è impossibilitato gloriarci se non il sostener la croce come il pellegrino, il discepolo di san Giacomo, che mena se stesso incurante di ogni malversazione perché con lui è Dio e chi è protetto dalla luce di Dio è come se fosse esposto a 1000 soli per infiniti attimi di benevolenza. Rimprovero solo una cosa al manifesto, del resto l’unica cosa che dal mio relativismo posso rimproverare: rimettete Dio al centro di ogni cosa, al centro di ogni attività, di ogni pensiero e azione. Perché ogni azione che non è ispirata da Dio è sterile, inerte, un blocco di creta insenziente. Non esiste noi e loro, perché un po’ di loro è in noi e un po’ di noi è in loro: ancoriamoci, esploriamo, contestualizziamo, preghiamo se possibile e poi leviamola quest’ancora e salpiamo verso l’aurora del domani.