Sensibilità e censura, ovvero le cose che non si possono dire
Sensibilità e censura, ovvero le cose che non si possono dire

Sensibilità e censura, ovvero le cose che non si possono dire

di Alice von Tannenberg

Negli ultimi anni stiamo assistendo a un inasprimento della censura nell’ambito dell’espressione e del linguaggio. Niente di nuovo sul fronte occidentale, dato che la censura esiste da sempre, per quanto al giorno d’oggi la si ritenga ormai superata: quante volte, nella nostra dabbenaggine di individui progrediti ed emancipati del XXI secolo, ci siamo scagliati contro il presunto oscurantismo medievale, i testi indicizzati dall’Inquisizione, i roghi di libri nella Berlino degli anni ‘30? Ci si illude di essere “più liberi”, ma la verità è semplicemente che sono cambiate le modalità entro cui le maglie della censura operano. Cambiano le epoche, cambiano i tabù.

Così, se qualche decennio fa erano ritenuti oltraggiosi attacchi alla religione e al pudore, se nella Russia sovietica si censurava Bulgakov e durante il fascismo si eliminava tutto ciò che poteva mettere in cattiva luce gli italiani, adesso si riscrivono i classici per evitare di urtare la sensibilità di una determinata categoria di esseri umani.

Emblematici sono i casi di Roald Dahl, Ian Fleming e Agatha Christie, che hanno avuto risonanza mediatica in tutto il mondo occidentale. Tutti e tre inglesi, tutti e tre popolari lungo l’arco del Novecento, uno autore di libri per bambini, uno padre del celebre 007 e l’altra autrice di gialli, tutti e tre fatti a pezzi dagli editori britannici all’alba del 2023. La colpa? Sempre la stessa: quella di aver usato nei loro libri un linguaggio considerato “offensivo” secondo una linea di pensiero prettamente contemporanea (e nel dire “contemporanea” ci si riferisce al massimo agli ultimi cinque anni; considerata la velocità con cui si evolve il pensiero, le idee di un decennio fa sono già considerate obsolete).

Si potrebbero tirare in ballo esigenze di mercato, ma questa è una scusa blanda, perché – per quanto mercato e società occidentale siano due facce della stessa medaglia – molti lettori “forti” si sono sollevati in massa contro questa decisione e questo non farà altro che aumentare il valore di mercato delle vecchie edizioni.

Allora a chi sono destinati esattamente questi libri? A quale richiesta rispondono? È davvero la richiesta a influenzare il mercato, oppure è il mercato editoriale che, assecondando le tendenze di pensiero attuali, vuole imporsi anche sui gusti dei lettori “forti”?

Un simile fenomeno, frequente nel mercato come nell’informazione e nella propaganda politica, è specchio della nostra società su più larga scala, in cui ogni pretesto è buono per puntare il dito e per imporre nuove limitazioni, non importa se ai tempi di questi tre signori (tuttora popolari, tra l’altro: chi non conosce 007, anche solo dai film, chi da non ha mai letto o sentito parlare di Roald Dahl e Agatha Christie?) certe parole o espressioni erano di uso comune e non costituivano offesa per nessuno. Tutto deve essere estrapolato dal suo contesto e ricondotto al nostro presente, a uso e consumo dell’individuo moderno imbevuto di cultura woke.

Le parole chiave sono razzismo, sessismo, omofobia, e le accuse più spietate vengono proprio dai salotti degli occidentali “al passo con la sensibilità contemporanea” che sentono il bisogno di ripulire il linguaggio del passato per ripulirsi la coscienza dalle presunte “colpe” dei loro antenati razzisti, sessisti e omofobi, in un proliferare di -ismi e -fobie che, nel fervore politicamente corretto, perdono di vista questi stessi problemi nel mondo reale.

E se i libri scritti qualche decennio fa sono considerati superati (si potrebbe citare anche la saga di Harry Potter, pubblicata tra il 1997 e il 2007, ma rischieremmo di sollevare altre questioni non di pertinenza di questo articolo), i libri di prossima uscita vengono passati al vaglio prima ancora di uscire sul mercato editoriale. Nel mondo anglosassone, sia nella narrativa che nella saggistica, si sta diffondendo la figura del sensitivity reader, cioè un curatore che supervisiona i manoscritti per identificare passaggi potenzialmente offensivi nei confronti di una minoranza o rappresentazioni stereotipate di una cultura.

Ora, se lo scopo fosse semplicemente quello di introdurre una figura esperta di determinata realtà, che aiuti a renderne più credibili le rappresentazioni, non sarebbe neanche una gran novità perché editor e consulenti di ogni genere affiancano gli autori da tempo immemore.

Il problema è l’uso ideologico che se ne fa, evidente già dal nome: il sensitivity reader si occupa prima del peso emotivo della rappresentazione e, solo dopo, della sua aderenza alla realtà. Viene da chiedersi come si comporterebbe una figura simile se le fosse dato da supervisionare un saggio di attualità che si concentra su situazioni disagiate e problematiche reali (tra cui la criminalità e l’immigrazione) o un romanzo storico, che per forza di cose avrà – o dovrebbe avere – un filtro ideologico diverso dal nostro. La risposta è facile da intuire, visto che già da qualche tempo si suggerisce ai giornalisti di non rivelare l’etnia o la nazionalità di persone colpevoli di reati, soprattutto se profughi, e la narrativa storica diventa sempre più un contenitore di fatti e nozioni da “riscrivere” secondo una retorica anacronistica per l’epoca. A questo punto non c’è da stupirsi se questi stessi riferimenti vengono rimossi dai libri di Agatha Christie con l’accusa di razzismo.

Fermo restando che compito della cronaca è quello di riferire i fatti così come sono accaduti, imparzialmente e senza filtri ideologici, e che l’arte è libera di farsi portavoce di qualsiasi messaggio – quindi due funzioni opposte, almeno all’apparenza – sorge spontanea la provocazione: è proprio necessario omettere dati potenzialmente “scomodi” per rendere la realtà meno brutale nel primo caso o edulcorarla per piegarla alla propria retorica nel secondo?

Ancora una volta, il problema non sta in ciò che viene detto, ma nel peso che gli si dà.

È assurdo pretendere di modificare la narrazione della realtà soltanto per non offendere la sensibilità di qualcuno.

Peraltro, questa censura del linguaggio è solo una debole facciata che, attaccandosi principalmente alle parole, rivela facilmente la sua inconsistenza e i suoi doppi standard. Nelle opere di narrativa (ma anche nelle serie TV) sono frequenti le scene di violenza brutale, talvolta anche irrealistica (vogliamo parlare degli stupri come espediente narrativo nelle ambientazioni storiche?), o la romanticizzazione di relazioni ai limiti del tossico dove la ragazza è succube di uno squilibrato, che non subiscono tagli di nessun tipo. Paradossalmente, si sollevano le barricate della censura sul discorso di un uomo del passato che si riferisce alle donne come “sesso debole”, ma poi va tutto bene se una casa editrice blasonata pubblica un romanzo pseudo-romance di ambientazione contemporanea in cui la donna è trattata come un oggetto da un uomo violento. Allo stesso modo ci si scandalizza e si urla allo stereotipo se in un poliziesco il teppistello di turno appartiene a una cultura “svantaggiata”, ma nessuno batte ciglio quando sono le culture cosiddette “dominanti” a subire lo stesso trattamento (basti pensare ai film di Hollywood che mostrano gli antichi romani come crudeli e sanguinari o la retorica di buoni contro cattivi di cui sono imbevute le narrazioni sulla seconda guerra mondiale, in una distorsione che, usando lo stesso metro di giudizio, sono stereotipi che danneggiano la memoria storica).

Finzione narrativa (nella letteratura) e rappresentazione del reale (ad esempio, nel giornalismo e nella saggistica) sono intimamente legate dalla carta stampata. Il modo in cui si tende a filtrare qualcosa di universale e senza tempo come la letteratura attraverso la sensibilità del presente è prodotto di una società che esprime il suo bisogno d’inclusione attaccandosi al lessico e lo concretizza attraverso un linguaggio strettamente codificato, fatto di asterischi, etichette e parole proibite. Non si fa distinzione tra i contesti, si legge la parola incriminata e si va in escandescenze, chiedendo a gran voce che se ne proibisca l’uso. Si prende tutto sul personale, ma si ragiona per slogan e frasi fatte, senza quasi rendersi conto del perché certe espressioni siano ritenute offensive se usate in un contesto reale.

Fino a riscrivere non soltanto il linguaggio del presente e del futuro, ma anche quello del passato.

La verità è che la Storia (di cui lingua e linguaggio fanno parte, in quanto specchio della cultura della civiltà che le ha prodotte) non ha morale. E soprattutto, è svincolata dalla morale attuale, dal politicamente corretto che vuole edulcorare tutto, mettere a tacere le verità scomode per paura di urtare la sensibilità di qualcuno. Non è difficile individuare un meccanismo subdolo in questa tendenza a trattare le nuove generazioni come se avessero il cervello imbottito di bambagia e incapace di collocare le cose nel giusto contesto. Censura del linguaggio e distorsione dei fatti vanno di pari passo: sono due sfaccettature dello stesso problema, nato dalla vergogna dell’uomo occidentale che alimenta il desiderio di un’effimera redenzione agli occhi del mondo e della Storia. Infatti, non si censura per tutelare questa o quella sensibilità, bensì per imporre una damnatio memoriae al nostro passato. Eppure, nascondere la polvere sotto il tappeto e far finta che qualcosa non sia esistito non lo cancella. Cancellare la N-word dai libri non cancella secoli di schiavitù, razzismo e sfruttamento; così come abbattere i monumenti dei conquistadores non riporta in vita civiltà estinte. Mettere su un piedistallo i cosiddetti “perseguitati” e affossare il nostro passato di europei negli stereotipi più beceri non ci risolleva dalle “colpe” dei nostri padri. Anzi, fa solo sprofondare il pensiero nell’ignoranza e nella vergogna.

Per non parlare della polarizzazione, piuttosto evidente, tra cose giuste e cose sbagliate, cose che si possono dire e cose che non si possono dire, laddove, paradossalmente, discriminare certe categorie ritenute “antagoniste” è cosa buona e giusta (fosse anche il proprio stesso popolo, in quanto uomini occidentali), in nome di un ipocrita ma rassicurante senso morale che fa sentire “dalla parte giusta” della Storia.

Perché vergognarsi di ciò che è stato quando noi non eravamo ancora nati, anziché impegnarsi affinché non accada più? Perché temere il passato a tal punto da volerne alterare la narrazione, anziché affrontarlo per risalire alla radice di certi fenomeni? Perché combattere le discriminazioni con una censura che attacca il linguaggio, ma senza intervenire sui problemi reali?

Le parole hanno un peso, è vero. Che violenza verbale e intolleranza siano un problema, è innegabile, e la coscienza attuale è molto più attenta a certe questioni di quanto non lo fosse anche solo vent’anni fa. Che si debba agire per impedire che l’odio ingiustificato si espanda, è ugualmente innegabile. Ma, per quanto possa essere brutale, le parole sono parole e vanno contestualizzate. Insultare un uomo di colore per strada ha un peso diverso rispetto alla stessa parola usata in maniera colloquiale in un romanzo d’avventura dell’Ottocento. Bullizzare un ragazzino sovrappeso ha un peso diverso rispetto alla parola “ciccione” usata nei libri di Roald Dahl. Cancellare da un libro di 007 epiteti spregiativi nei confronti delle donne non risolve improvvisamente la misoginia. Riscrivere i libri o tentare di modificare il passato non è la soluzione ai problemi che si protraggono ancora nel presente, siano essi discriminazioni o disuguaglianze sociali.

È un’ipocrisia che genera l’effetto contrario, perché nel sottobosco l’intolleranza continua a proliferare, s’inasprisce anzi. Le divisioni, anziché scomparire, vengono alimentate dalla pericolosa retorica del “noi contro loro”, in cui i paladini del pensiero “giusto” dettano legge e chi, anche solo proferendo una verità scomoda senza allineamento ideologico, viene ostracizzato e privato del diritto di esprimersi.

La mannaia della censura colpisce indiscriminatamente, non guarda in faccia a nessuno, sia che l’offesa sia volontaria, sia che non lo sia. Insulti e opinioni espresse pacatamente sono messi sullo stesso piano.

Siamo nell’epoca dei disclaimer, dei trigger warning, della smania di “dissociarsi” da tutto ciò che potrebbe turbare. Ed ecco che dalla censura – che poi è autocensura e autoumiliazione – si passa direttamente alla cancel culture.

L’uomo bianco che vuole ripulirsi la coscienza dal razzismo dei suoi padri finisce per trascinare nella sua crociata chiunque abbia la pelle chiara, come se questa fosse una colpa da espiare, proibisce ogni riferimento verbale ad altre etnie e, di riflesso, bolla come “fascista” l’amore per la propria cultura e la propria terra. Offensivo o meno non fa più differenza, perché è il concetto stesso a diventare tabù: chi lo rimarca è razzista, a prescindere. E si potrebbero fare molti altri esempi, tirando in ballo vari altri -ismi e -fobie.

Ciò che passa non è un messaggio di rispetto, ma una caccia al colpevole. Le vittime si rivalgono dei carnefici, ma solo a parole, e a questi ultimi viene inculcato il senso di colpa senza che acquisiscano consapevolezza di sé. C’è chi accetta volontariamente di autoumiliarsi caricandosi sulle spalle colpe non sue, ma c’è anche chi questo castigo non lo accetta e, sentendosi vittima di un trattamento ingiusto, si ribella.

Attaccarsi alle parole, ai simboli o qualsiasi cosa possa “offendere” qualcuno alle lunghe può diventare pericoloso, perché legittima chiunque a esporre le sue lagnanze, in un effetto domino all’apparenza senza fine (logicamente, altrimenti si genererebbe l’ennesima discriminazione: perché dire A è sbagliato, mentre B si può dire? Per alcuni è offensivo!). Ne abbiamo già avuta una dimostrazione concreta col femminismo estremo (che femminismo non è), che non ha fatto altro che alimentare l’odio verso gli uomini e, di conseguenza, l’inasprirsi della misoginia da parte di certe sottoculture maschili (come incel e redpillati). In uno scenario distopico si potrebbe finire a non poter parlare più di niente ed esprimersi in una maniera robotica e impersonale, che non esprima giudizi e non menzioni fatti che potrebbero offendere chicchessia. Ma siccome la censura non risolve il problema, ma si limita a silenziarlo, il risentimento continuerà a ribollire sotterraneo fino a che non esploderà di nuovo.

Allora sarebbe più costruttivo guardare indietro e fare un confronto col passato, armati di senso critico, osservando il modo in cui il pensiero si è evoluto, per spianare la strada a un futuro più consapevole. Agire nel concreto, in nome del rispetto che tanto si va sbandierando nel tentare di epurare il linguaggio da termini ed espressioni ritenute offensive. Altrimenti è solo una regressione nell’oscurantismo, non tanto diverso da quello che si biasima agli antenati di cui noi occidentali progrediti ed emancipati tanto ci vergogniamo.

Un commento

  1. Elibeth

    Sempre eccezionale, sempre diretta, precisa, scorrevole, eccezionale. Ha detto tutto e l’ha detto coi contro cosiddetti, come Sempre

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