Polemos; padre di ogni cosa
Polemos; padre di ogni cosa

Polemos; padre di ogni cosa

Di Borel

Il mondo attualmente sembra dominato dal Caos. La geopolitica ci presenta un globo governato da meccanicismi, per quanto umani, che seguono strutture e traiettorie guidate dagli attori più disparati, che sono gli Stati in lotta o in accordo secondo l’interesse, la strategia o il bisogno del momento.

Un modello unitario di lettura dei fenomeni, che metta ordine nel mare magnum internazionale, risulterebbe riduttivo data la complessità e la velocità con cui fenomeni, spesso lontani ed incoerenti, si incontrano e si avvicendano.

Le più solide e classiche categorizzazioni vengono meno. Non viviamo più in un mondo diviso tra Occidente e Oriente; pur consapevoli che Oriente e Occidente sono riferimenti culturali e non geografici, quindi esistenti in quanto espressione di una tendenza umana, ad oggi rappresentano una dicotomia insufficiente e spesso fuorviante. Prima di tutto perché, se non accettiamo una comune natura spirituale a tali culture, si può con facilità mettere in dubbio che esista un Oriente sul piano di civiltà: l’India hindu, la Cina di tradizione confuciana e poi atea, il Giappone Shinto non hanno più in comune di quanto non l’abbia la Francia con la Turchia. Se si suppone un’anima orientale la si deve astrarre dalle sue determinazioni culturali.

Invece, una civiltà occidentale, che attualmente comprende Stati Uniti ed Europa, è riconosciuta dalla maggior parte degli studiosi del tema, pur con tutte le problematiche di conciliare tendenze  al contempo occidentali ed orientali, come è stato per le ideologie del XX secolo.

Il bipolarismo, che si è cristallizzato durante la Guerra Fredda intorno agli opposti Occidente-USA. e Oriente-URSS, non è più tale dal 1991.  

La spaccatura bipolare che caratterizzava quel mondo è ormai mutata in un multipolarismo dal volto caotico, in cui tuttavia emergono piuttosto distintamente due tendenze contrarie, che si fronteggiano in un polemos quotidiano: un globalismo, che imperversa in forme neo-imperialiste e colonizzatrici, tecnocraticamente serpeggianti nelle strutture economiche, sociali e politiche; e, in opposizione-reazione a questo, assistiamo alla rinascita dei nazionalismi in forme molto differenziate, in cui la spiritualità religiosa, come valore identitario, ritorna elemento essenziale.

La Cina, in questo senso, rappresenta il principale promotore della globalizzazione, a dire il vero sulla stessa linea degli USA. democratici. Non in opposizione, come vorrebbero alcune letture attuali, che contrappongono una vera e propria globalizzazione occidentale ad una contro-globalizzazione cinese. Questa interpretazione sorge dalla constatazione che gli Stati Uniti sono la prima potenza mondiale e che la Cina è la seconda, perciò principale competitore e nemico. Pechino, tuttavia, entrando dal 2001 nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ha accettato i paradigmi dell’Occidente, di fatto sfruttando il ponte con Washington per sviluppare una forma di colonizzazione commerciale più rapida ed efficace: creando un modello di globalizzazione suo proprio.

Non dimentichiamo che dopo il fallimento del comunismo di Mao Zedong, fautore di una sinizzazione del marxismo, l’ideologia dovette riadattarsi ad esigenze più pratiche e, con la direzione di Deng Xiaoping, venne elaborato un socialismo di mercato che armonizzasse mercatizzazione e sistema monopartitico. Il grande balzo in avanti della riforma economica di Deng non ha mutato l’anima marxista del Paese. Così come il “Sogno Cinese” di Xi Jinping di creare una classe media benestante, ed una Cina borghese in grado di competere con gli standard occidentali, si rivela una declinazione dell’atteggiamento partitico neo-comunista, che tende più realisticamente al sogno di una Cina imperialista e colonizzatrice. Colonie infatti oggi altro non sono quelle in Africa, per il cui dominio compete, ma di fatto ha già vinto, con Turchia, Stati Uniti e Russia.

La Cina, che presentandosi paternalisticamente come aiutatrice e modernizzatrice, investe e finanzia estrazioni di uranio in Benin e litio a Mali, estende di fatto la sua presenza in Egitto, Sudan, Ciad, Niger, Senegal, Guinea, Nigeria, Camerun, Etiopia, Kenia, Uganda, Repubblica democratica del Congo, Angola, Zambia, Mozambico, Repubblica Sudafricana e Mauritius; tenta una Via della Seta per meglio raggiungere l’Europa e compensare l’inferiorità del commercio navale rispetto agli USA. Il perché la morte del comunismo cinese risorga nella globalizzazione è spiegabile con la comune radice tra Eterna Sinistra e nuova tendenza global, diversi ma comuni atteggiamenti derivanti da un attivismo che tenta con la “prassi” di colmare la trascendenza ideale. Tratto riconoscibile di un messianismo millenarista che annuncia un regno di pace futuro, raggiungibile solo tramite processi rivoluzionari, che da Mao a Xi prendono il nome di “riforme”.

Questa impostazione millenarista, che vorrebbe affrettare la venuta di un mondo migliore o di un Nuovo Ordine, tramite estensione a macchia d’olio della propria realtà, è ravvisabile nel marxismo, come metafisica superata nella prassi, ma anche nelle sue evoluzioni, prima di tutte l’attuale Repubblica Popolare Cinese.

Si direbbe in questo senso che l’America sia diametralmente opposta alla Cina, per caratteri di storia, civiltà e geografia, ma così non è.

Così assistiamo agli USA democratici di tendenza neoconservatrice che esportano la democrazia, avvalendosi di metodi coloniali, che con guerre per “difendere i diritti” hanno provocato e tutt’ora provocano incalcolabili morti, per mantenere in realtà il primato egemonico. La cosiddetta “Guerra al Terrorismo” post 2001 ha in questo senso inaugurato una serie di movimenti di espansione che non sono ascrivibili al puro nazionalismo, ma che assumono caratteri di imperialismo. Abbiamo dunque di nuovo un senso della trascendenza, rappresentato dagli ideali della democrazia liberale, che devono necessariamente imporsi per avvicinare all’uomo un’ipotetica felicità, declinata in valori occidentali e formalmente cristiani. Considerato tutto questo, una lettura economicista per spiegare l’operato dell’America democratica degli ultimi vent’anni è parziale.

La Russia, dal canto suo, è stato il centro della Rivoluzione bolscevica che per prima ha utilizzato il materialismo storico marxista per attuare la Pace. Questa pace, instaurata a Mosca, doveva raggiungere la Germania ed irradiare nel mondo come una nuova luce.

Anche questo ideale è fallito. Attualmente la Russia, che con la retorica dell’anti-occidentalismo e della lotta alla corruzione dei valori si professa cristiana ortodossa, maschera di fatto lo stesso imperialismo millenarista. Paese immenso, territorialmente indifendibile per la sua stessa conformazione geografica, conquistato più volte da culture straniere senza mai spezzare o mutare l’anima russa, i cui punti di debolezza divengono punti di forza: il popolo russo è abituato alla sofferenza, al sacrificio; resistente per storia e per natura, come rilevò Ivan A. Il’in.

Pur ammettendo che i principali filoni interni alla Russia sono tutti nazionalisti, ponendo al centro la propria identità di popolo, le sfumature permangono e sono decisive: dall’auto-percezione di sé come di un paese anche e molto europeo, sulla scia del lascito di Pietro il Grande, fino alle posizioni ultra-nazionaliste della Velikaya Rossiya. In tale contingente, Putin rappresenta una linea moderata che tende alla collaborazione con Pechino da un lato e all’Occidente dall’altro, chiedendo addirittura di essere ammesso fra i paesi NATO nel 2000.

A fianco di questi grandi Paesi vanno ricordate anche realtà non-statali, ma che presentano comunque le caratteristiche che abbiamo lumeggiato, come il World Economic Forum di Davos, che in Klaus Schwab, fondatore e presidente del Forum, trova voce quella che è stata definita la Quarta Rivoluzione Industriale. Altro volto della orto-prassi della trascendenza.

In opposizione a queste tendenze globaliste che puntano a vario titolo ad un nuovo ordine mondiale, e in reazione a ciò, sorgono nazionalismi identitari che riscoprono la loro peculiarità religiosa. Allora il kemalismo di Atatürk cede il passo alla recrudescenza panislamica di Erdoğan, nuovo preteso Suleiman.

L’India del Congresso e la linea politica dei Nehru Ghandi torna sotto Narendra Modi l’antico Barath, fiero e non-allineato, fedele alla memoria di Chandra Bose.

Israele, fondato con l’aiuto di Stalin e prevalentemente socialista askenazita, è adesso a prevalenza religiosa e nazionalista.

Così per l’America Repubblicana e le vedute controrivoluzionarie del MAGA e di Donald Trump, molto più che formalmente cristiana. Solo per citare alcuni esempi.

In conclusione: pur prendendo coscienza del fatto che un unico modello di interpretazione del presente storico conterrà sempre suapte natura dei limiti e delle contraddizioni, si può tuttavia affermare che un modello trans-politico, che superi le rigidità di un approccio aridamente storicista, risulta il più efficace a rendere conto del dinamismo eracliteo multipolare di forze globalizzanti e resistenze anti-globalizzazione, incarnate soprattutto nelle culture a forte identità spirituale e nazionale, cercando in cause ideali il vero motore del presente. Tali cause non si identificano più, almeno dal ’91 ad oggi, con i movimenti ideologici, pur conservandone diversi tratti e neppure pienamente con scontri culturali, pur restando il modello culturale uno dei più completi. Tale modello identifica sette od otto civiltà in lotta tra loro, mentre nel paradigma presente ogni civiltà può contenere in sé globalizzazione e anti-globalizzazione, come nel caso degli Stati Uniti.

Il frazionamento, la divisione interna, sono la cifra della nostra epoca, segnata dal conflitto ad ogni livello, ma comprensibile in una filosofia della storia che sappia cogliere nature in atto pur mutando la veste geo-politica, ideologica o culturale.