Maniac e la “pop-medicine”
Maniac e la “pop-medicine”

Maniac e la “pop-medicine”

 

Maniac e come Cary Fukunaga è riuscito a distorcere la malattia mentale riducendola ad uno stereotipato e scintillante oggetto cult.

 

Cary Fukunaga ha forse, semplificando e distorcendo leggermente la storia della televisione, rianimato la serialità dirigendo in modo impeccabile gli otto episodi della prima stagione di True Detective. E sì, è vero, molti potranno controbattere che è stata scritta e creata da Nic Pizzolato, che lì sulla scena c’è un McConaughey straordinariamente bravo, ma rimane uno dei migliori lavori di Fukunaga, lo stile e la rappresentazione della Louisiana rimangono tra gli esempi più alti di regia del 2014.

Non è necessario, però, dilungarsi ancora su questo, molte parole sono state spese e altre risulterebbero più che mai superflue.

Molti ricorderanno invece il suo nome per l’ assenza sui titoli di testa del remake di IT dal quale progetto si distaccò per divergenze artistiche, o ancora per il più impegnato Beast of No Nations.

Qui, invece, ci interessa analizzare il suo ultimo lavoro – produzione Netflix – dall’accattivante nome Maniac. Già dal titolo l’argomento centrale sembra abbastanza chiaro, alcuni potrebbero chiedersi se invece ci sia qualcosa di più sottile, di non detto, di svelabile, e se lo avessero mai fatto la risposta sarebbe stata: NO.

Argomento centrale della serie è la malattia mentale, o meglio, la sperimentazione di un farmaco su un numero ristretto di cavie umane per un tempo limitato; farmaco che prometterebbe di curare, o salvare, l’umanità dalle conseguenze che un possibile trauma potrebbe avere sulle esistenze di ogni individuo.

A questo punto i problemi sono molteplici e di molteplice natura.

In primo luogo nella struttura della sceneggiatura e nella caratterizzazione dei personaggi che non risultano affatto empatici e con i quali raramente, durante il susseguirsi delle puntate, riusciamo ad avere il giusto legame. Vero anche che questo accade in tantissime produzioni che piuttosto che mantenere una struttura vincente e una sfaccettatura tridimensionale dei protagonisti puntano, invece, sul tentativo di dar luce a qualche nuovo modo di intendere ciò che ci circonda o la realtà in cui siamo immersi.

Ed è proprio qui che si crea la prima grande falla, probabilmente quella per cui l’intera opera risulta macchiettistica e senza uno scopo reale, cioè l’impossibilità di avere una vera connessione con il mondo che stiamo osservando.

Non è per l’immagine di un futuro distorto e vintage-avanguardistico (già lo avevamo visto in Her e si era dimostrato più che convincente) e non è neanche per lo stile a tratti fantasy a tratti avant-pop che aleggia in gran parte della serie. Eppure, allo stesso tempo, è proprio per queste ragioni, proprio perché il messaggio centrale, ovvero le malattie mentali, la difficoltà nel mantenere rapporti autentici con il prossimo e l’impossibilità debilitante di avere un comportamento almeno apparentemente accettabile all’interno della società, rimangono schiacciati sotto tonnellate di scelte scenografiche, fotografiche, costumistiche e attoriali che non lasciano spazio ad altro che ad una esasperata esperienza visiva senza spessore. Anche gli stessi attori sembrano ingessati in ambienti in cui non riescono a muoversi, tutto più che mai finto, risulta come una forzatura costante nella quale è impossibile muoversi e respirare. E non sarebbe un problema se fosse voluto, se ci fosse stato un tentativo volontario di creare un nucleo asfissiante, è chiaro anzi che questo manca, o che – perlomeno – non è stato raggiunto nella sua complessità l’obiettivo di partenza.

Tante parole per chiarire quanto l’estetica sia dominante senza ancora essere entrati nel cuore centrale del lavoro di Fukunaga, già questo è un chiaro sintomo di quanto in realtà sia ininfluente nello sviluppo del plot nella serie.

Seguendo il titolo – Maniac – dovremmo trovarci davanti a personalità distorte o perlomeno con una psiche tanto devastata da non avere una chiara definizione. Invece, tutto quello che ci viene proposto è un crogiolo in cui si mescolano persone del tutto prive di quella deturpata stabilità psichica che ci si aspetterebbe da loro. In aggiunta a questo, che poi basterebbe come punto a sfavore per abbandonare l’intera visione, è la chiave risolutiva che rimane più che mai scomoda.

L’utilizzo di una medicina in tre fasi, che servirebbe a risolvere tutti i, poi non tanto complessi e articolati, drammi nelle vite di questi personaggi, non viene assolutamente trattata in modo ambivalente e tantomeno ironico.

Questo è l’aspetto che lascia perplessi più di ogni altro appena citato, questa tendenza – spesso legata ad una forma mentis statunitense – che sia possibile risolvere tutto con l’assunzione di qualche colorata pillola. Tanto facile quanto una magia, la soluzione ai problemi rimane vincolata alla sperimentazione medica che per quanto assurda e parodica per l’intero arco delle puntate, riesce comunque ad avere un risultato ottimale riuscendo a “salvare” i due protagonisti.

A questo punto ci si chiede se fosse una specifica volontà del creatore fare una qualche mistificata pubblicità alle case farmaceutiche o se magari nemmeno si sia reso conto del messaggio assurdo che stava trasmettendo; purtroppo la seconda ipotesi sembra la più accurata ma allo stesso tempo la più preoccupante. Se, infatti, ipotizziamo che il modo di affrontare un tale argomento sia stato involontario è chiaro quanto esso sia introspettato profondamente.

Concludendo, quindi, non solo è palese quanto ormai una rappresentazione meramente isterica e estetica possa avere la meglio su qualsiasi spessore contenutistico, bensì quanto sia ormai un cliché l’utilizzo di certi argomenti jolly senza approfondirne gli aspetti portanti e senza interessarsi minimamente alle sfaccettature se non quelle che possono rendere allo spettatore un’immagine più scintillante e accattivante possibile.

Non è neanche vero che non ci siano elementi discordanti presenti nelle proposte attuali, tra tutti BoJack Horseman o Jessica Jones (per rimanere in ambito Netflix) che riescono a trattare le malattie mentali senza cadere facile preda della narrazione facile e semplicista.

Dispiace solo che ad aver ceduto sia stato un autore che sembrava aver tanto da dire.