Gilet jaunes: cronache dalla Francia
Gilet jaunes: cronache dalla Francia

Gilet jaunes: cronache dalla Francia

 

A volte capita che la vita ti porti a fare delle scelte che non avresti mai pensato di avere il coraggio nemmeno di pensare, a volte la vita ti mette così tanto con le spalle al muro da pensare che qualsiasi movimento sia impensabile. E le ragioni sono spesso così tanto profonde e così differenti da non poter essere accomunate neanche volendo.

Per qualche strana ragione, per fare un esempio, mi trovo a vivere in Francia per un anno in un momento in cui molte altre persone sentono di dover cambiare qualcosa.

Seppure le mie motivazioni siano del tutto personali, svincolate dai processi economici e politici, mi sono trovata ad essere particolarmente coinvolta in un contesto che sembra – comunemente al mio – quello del cambiamento.

Ora, per entrare nel merito, è già da qualche settimana che in Francia continua ad esser presente nelle strade un movimento di protesta, molto sentito come tra poco spiegherò, contro il rincaro dei carburanti. Si fanno chiamare “gilet jaunes” e cercano di far sentire la loro presenza all’entrata delle autostrade rallentando il traffico e creando disagi (quello che è tipicamente accettato come atto di disaccordo con il potere centrale, niente più, niente meno di quello che sarebbe ed è il fine di un qualsiasi sciopero: creare disagio).

Le persone con cui mi trovo a convivere, per la maggior parte di nazionalità francese, mi hanno introdotto alla questione spiegandomi che ovviamente è un problema di massima importanza e che è chiaro a tout le monde quanto il sistema legato al petrolio e al rifornimento di carburante sia fallace, eppure di sottofondo, tra le parole (che ancora afferro con difficoltà) c’era un tono di diffidenza verso queste persone, una sommessa altezzosità che dava per scontato una possibile quanto imminente débâcle.

È chiaro che questo sentimento, venendo dall’Italia poi, lo conosco molto bene. Sono solita anche io alzare gli occhi al cielo di fronte a qualsiasi tentativo controcorrente che non si espliciti in decapitazioni di massa (guarda appunto la storia francese) o in scioperi della fame protratti per mesi. Tutto mi appare superfluo e ininfluente, lo capisco bene e lo condivido.

Cosi, mentre mangio qualche tipo di riso servito come contorno e mi convinco sempre più che il cibo italiano mi manca come l’aria, passo sopra queste notizie da telegiornale dell’una e mi decido a non prendere l’auto per il weekend, optando piuttosto per un libro o qualcosa su Netflix.

Non mi sono informata ulteriormente e nella consapevolezza che tutto sarebbe subito passato senza problemi decido, ad una settimana di distanza, di andare ad Avignone (che si trova in Provenza, la regione in cui vivo, ben lontana dalle mille luci di Parigi e ben lontana da quel mondo che tutti possiamo immaginare). Sono rimasta ferma con il piede sulla frizione per quasi un’ora, ad una rotonda appena prima del raccordo, sperando che qualcuno arrestasse tutti i protestanti e mi permettesse di arrivare alla mia uscita. Continuavo a sentire clacson e persone urlare, e mi sentivo più che mai infastidita da quell’attesa estenuante.

Arrivata a pochi metri dall’uscita però mi sono resa conto che le cose erano un po’ differenti, strano come tutto da lontano e senza vedere sia sempre diverso – ecco che una rotatoria maledetta diventa metafora di vita in solo due righe.

I guidatori suonavano il clacson e urlavano ai ragazzi fermi lungo la strada per incitarli a continuare e tutte le macchine che passavano, ma questo l’ho scoperto solo in un secondo momento, avevano messo – e continuano ancora ad avere – il gilet giallo sul cruscotto in segno di supporto e assenso.

Detto ciò non ho rivisto tutte le mie posizioni sulla contemporaneità, non ho venduto tutti i miei averi per supportare la causa e non ho nemmeno preso il primo treno per lanciare i sassi all’Eliseo.

Però posso dire qualcosa, e mi pesa perché ancora la mia percezione è distorta dall’essere estranea a questo paese e questa cultura, ma, ecco, posso dire qualcosa sulla visione che si tende ad avere di cose che non sono come vengono raccontate. Questa è una chiara lezione che impariamo presto in Italia, quello che ci viene raccontato non è sempre vero e spesso va filtrato e rivisto.

Perciò mi sono documentata e ho iniziato a leggere qualche articolo qua e là nella speranza di capire come e perché stesse succedendo questo.

Il mio intento non è di istruire né tantomeno di spiegare il tutto, ma posso dire quello che non è. Recentemente ho letto un pezzo di Simone Perotti (qui il link) sul sito de Il fatto quotidiano che mi ha lasciata particolarmente sconcertata e che vorrei un attimo rivedere.

Prendo due piccioni con una fava come si suol dire e cerco di rivedere alcuni passaggi chiave che penso possano aiutare a capire quale sia il vero problema. Perotti fa di tutto per screditare queste persone sostenendo che in fin dei conti, bè, il problema è il loro per aver vissuto ciecamente in questa società capitalista senza mai esercitare alcun potere contrario «non cerchiamo di cambiare le regole del gioco, va cambiato il gioco».

Seppur io creda che un fondo di verità ci sia, a livello teorico, in queste parole, non credo neanche che queste persone stiano in balia del freddo vento di novembre per stabilire cosa sia più o meno rivoluzionario fare. Credo invece che qui si parli di qualcosa di molto più pragmatico, aspetto che viene spesso tirato in causa dalle forze politiche, ma che in qualche modo sfugge sempre di mano.

Qui abbiamo delle famiglie che hanno reali problemi in condizioni reali che non permettono loro di avere vite soddisfacenti. Le grandi parole sull’avidità della nostra società e sulle ipotetiche aspirazioni velleitarie che la classe proletaria ha o avrebbe avuto in un vicino passato non sono così facili da applicare in questo caso. Soprattutto, poi, è il discorso fastidiosamente troppo semplicistico del “cambia tutto per cambiare qualcosa”, che ripeto condivido molto e molto profondamente, eppure che non ha nulla a che vedere con quello che sta succedendo. Confondere un movimento con una rivoluzione per quanto potrebbe soddisfare il nostro io interiore, è sbagliato e più che mai stupido.

Ancora, trovo del tutto non condivisibile la percezione della capillarità geografica che viene a delinearsi, questo è un assembramento che è partito inizialmente e soprattutto nelle zone periferiche, nelle campagne e nelle aree lontane dai grandi centri urbani. Quello che succede a Parigi è diverso e in qualche modo distorto.

Concludendo, mi dispiace di non aver potuto dare una visione completa e approfondita di quel che sta succedendo, ma non mi sento né di avere il diritto né di trovarmi nella giusta posizione per farlo. Credo solo che a volte, anche contro ogni pronostico, contro ogni grande voce di cambiamento radicale, contro ogni statista che rema nella direzione opposta, qualcuno che alza la mano per fermare una macchina indossando un gilet giallo non sia da sottovalutare.