Rieducazione sentimentale #2
Rieducazione sentimentale #2

Rieducazione sentimentale #2

 

 

FIORI DI LOTO

 

I

Fiori di loto, ne sento parlare,

li voglio! Davvero si dimentica?

Ma non c’è il bisogno di scordare

“il tempo lenisce tutto a fatica”

 

Ma se si potesse aiutare il tempo?

Anzi l’uomo, non il tempo: la mente

è segnata dal sole e dal maltempo,

dalla curiosa luna avida agente

 

segreta del tuo cuore; tempestata

di domande ella indaga a fondo dentro

di te; la tua anima è processata

 

e vuoi un fiore di loto, epicentro

di dimenticanza. Poi calmata

questa fame piange il vuoto ch’è dentro.

 

 

 

II

Quando a sera torna stanco al cuore

solo e debole sempre mi coglie

Amore; le cicatrici bussano

e pulsano e stracciano

il fiore maledetto che porsi

– distrattamente – alle mie ragazze,

vendendo l’illusione

che sarebbe stato amore, per sempre.

 

Ma non riesco, la vita

mi chiama altrove e le mie cicatrici

uniche tengono compagnia al

cuore, che per amore, ha solo

quel misero fiore.

 

 

 

Ma voglio provarci, basta dimenticare. Se il caso è cieco, io sarò il suo cane guida. Cosa cerco da una donna? Quello che mi mancava prima. Lo trovo, lo prendo in braccio, lo cullo, ma piano piano mi scordo di lui. Ma com’è possibile, mi dico. Eppure, ci tengo!

Povera cara.

Povera Marylin. Eri il cavallo su cui scommettevo: bello, vitale, così affine alle mie aspettative. Eppure, non ti ho vista nemmeno gareggiare. Abbiamo camminato insieme fino all’ingresso del campo, poi mi sono voltato, incredulo di aver scommesso su di noi. E ti ho lasciata andare.

Ma sei sicuro che fossero Fiori di Loto? No, perché, mi sono scordato come si ama. Mi sembra una farsa, una scena che voglio inscenare io, di mia volontà. Manca quella scintilla che accenda il fuoco: mi sembra di fissare un camino con solo una fascina di legna.

Purtroppo, capisco che amare non è una decisione, una speranza che si affida ad aspettative e promesse. Non posso amare senza un colpo di fulmine, senza sentirmi legato all’ombelico fino a dentro di lei. Amare non è un gioco, e forse io ho staccato un fiore che non meritavo per una pura illusione di compatibilità.

 

 

 

Pescara 2 – 2 Assisi

Continuamente faccio debiti con le persone che leggo. Da ognuna traggo la linfa che mi traversa di giorno; annaffio continuamente i fiori di loto che ho nel giardino. La mia testa cresce rigogliosa ed oggi, leggendo D’annunzio, mi è preso fuoco il giardino – per scordarmi le inutilità. Il fuoco è sempre stato simbolo di potenza mistica – teologia, poesia e carisma – ma non per questo ambisco ad una vita simile; ho cambiato idea, non cerco più il passato come idillio. Niente Νόστοι stasera. Degli abitanti dell’antichità sicuramente è arrivato solo il meglio e il peggio: la mediocrità che odio è sempre esistita! Ed io stesso sono un mediocre, non riuscendo a prendere una vera posizione, agiato dai miei interessi e dal mio esser giovane. Vivo alla scoperta, anelando ad un futuro da letterato senza far i conti con la vera conoscenza, che è cosa diversa dall’avere intuito. Ma scrivo tutto questo – gettando nel pozzo della mia anima un secchio che mi turba – per arrivare ad una conclusione. Voglio trovare uno scopo nella mia vita, non un compromesso. Vorrei che la mia voce fosse udita al di là delle aspettative di chi legge, non voglio scendere a patti con chi aggredisce questo foglio con le sue opinioni, io voglio essere me stesso con tutti. La mia vita caleidoscopica deve risultare naturale come l’arcobaleno. Contro i pregiudizi e le speculazioni traggo dalla mia vita, dalle mie letture ciò che ho da dire a chiunque.

Rileggendomi vorrei contraddirmi. D’Annunzio, sì, sarebbe un bel ideale. Ma amo tanto anche s. Francesco. La sua umiltà è invidiabile. Mi piacerebbe tanto potermi annullare ed essere uno strumento per la vita degli altri. Lasciarmi al vuoto, sorridente e noncurante del domani; aspettando il paradiso.

Da bambino uno dei miei sogni era poter leggere il mio nome in grassetto in qualche libro. Volevo entrare nella Storia. Volevo che la mia storia fosse Storia. Pensavo, ma non dicevo ad alta voce (mia madre mi avrebbe sotterrato) che avrei ucciso persino il presidente o il Papa per entrare nella Storia.

Questa cosa un po’ mi preoccupa. Per la mia fantasia. Per la mia ambizione. Per la contraddizione che mi appartiene nel voler essere contemporaneamente Gabriele D’annunzio e Francesco d’Assisi.

 

 

***

Di cosa siamo fatti? Non serve una risposta semplice, ma nemmeno una troppo problematica. Bisogna comprendere e scegliere. Sono fermo, in una stanza, in alto come piace a me e vedo piovere. Passa giù un treno, lontano, in movimento; se fossi su quel treno sarei fermo, ma in movimento rispetto a questa stanza. Se fossi fatto soltanto di bisogni d’affetto, rimarrei in questa stanza; se avessi bisogno di conoscenza, sarei su quel treno. Mi maltratto i capelli, sono solo e penso. Una parte di me vorrebbe compagnia, una voce sottile, che si insinua, troverebbe la compagnia ingombrante. Potessi tu lettore conoscermi! Non sono così, lo giuro. Quando sono in compagnia sono l’anima del discorso, ma quando torno a casa mangio di nascosto caramelle al fiore di loto e mi empatizzo con il mio destino. Mi connetto con la mia coscienza e scruto. Divento meditabondo. Mi vorrei stendere sul tetto di questo palazzo e sciogliermi tra la pioggia. Voglio scivolare tra le tubature, essere tutto un niente: una goccia d’acqua odiata dai modisti e amata dai contadini. Vorrei che questa storia avesse una forma diversa da quella di una coscienza, ma è molto difficile per chi scrive, staccarsi da sé stesso. Mi chiedo per questo di cosa sono fatto. Per ora sono un fascio di emozione a cui il mio padrone non riesce a dare una forma.

 

Ricomincia il viaggio, è meglio salire su qualche treno.

 

 

 

IN GITA

 

Sabato 21 gennaio, 2017

Oggi gran fuga dalla realtà salpando per Venezia. Molti pensieri nella testa e una gran voglia di buttarli tutti via. L’AMORE, LO STUDIO, LO STRESS: cose che combinate male mi producono una grande malinconia.

Il sole oggi c’è (il freddo pure), la mia – ultimamente – solita pigrizia mattutina, mi ha, anzi, mi sta ancora tenendo compagnia. Adiacente a me c’è una famiglia araba: i bambini si divertono pazzamente, smisuratamente e la coppia si ama veramente; soprattutto lei, lo guarda con profonda ammirazione. Il bambino, sui 7, ha un bilinguismo alternato che un pochino invidio. Nella mia testa scorrono ipotetiche immagini, di questo bambino, divenuto ormai mio coetaneo, che affronta all’università un esame di ARABO. Egli esordisce con scioltezza rivelando all’esaminatore come sia insolito parlare arabo con qualcuno che non sia un suo familiare; e quella placidità e formalità che sempre lo hanno contraddistinto, sono intorpiditi e ghiacciati come se fossero una reminiscenza recondita (e confusa) da pescare in un pozzo profondo.

 

***

Contemporaneamente so come in famiglia si parli altro dall’arabo; l’arabo è rimasto allo stesso stadio del SACRO CORANO e lo si parla solo pregando o svolgendo pratiche burocratiche.

Ma un pretesto letterario spontaneo e non meditato merita un mondo interiore a parte. Se quel racconto fosse, aggiungerei che il bambino, ex bambino, durante quel famoso esame di arabo, spieghi come in realtà egli abbia uno zio giurista che obbliga sia lui che suo figlio a parlare del più e del meno in arabo ufficiale.

 

La vita è bella – anche se per fortuna ancora non mi ha messo alla prova, ma dopo questo BREVE VIAGGGIO – quello vero deve ancora cominciare – mi sento già meglio e vedo il lato costruttivo delle cose, non quello drammatico.

 

Titolo del giorno, che forse verrà a titolare qualche POST è:

 

VENICE, VIDI, VICI

 

 

 

Sabato 25 marzo, 2017

Ho fatto dodici chilometri di bicicletta per placare un po’ di irrequietudine, per affidare ad una sola candela, tante preghiere.

 

Ero dentro l’abbazia e non ho mai sentito così tanta calma; per la maggior parte del tempo sono stato solo; è passato più volte un frate che, meticolosamente, teneva tutto in perfetta pulizia.

Avrei voluto che mi parlasse; gli avrei spiegato che per me c’è del misticismo anche letterario. Piero Maironi è stato qui, con i suoi tormenti. E ancor più tormentato, vagava furente tra i colli, Jacopo.

Che contrasto, che passione!

 

Vorrei condividere con qualcuno questo mio momento, ma sento che gli mancherei di rispetto.

Queste ore mistiche vanno coltivate, riempite di attenzioni, come un amore.

 

Vorrei un amore, anche come passatempo, ma non so più sacrificare il mio ego a qualcun altro.

 

 

 

Verona, 8 aprile 2017

M’accarezza una dolce bonaccia. Ancora acerba è l’estate. Siamo in piena primavera. C’è del verde, mi invidiano questo posto: una panchina all’ombra in piazza Bra’. Giuro che questo sole mi strania dai pensieri letterari. Ci sono famiglie quasi liete che spingono dei passeggini. Tedeschi. Credo barboni che credo pazzi. Credo che molta gente qui sia felice. Compreso me.

La bellezza gioca un ruolo fondamentale e anche questo tempo tiepido assopisce ciò che ci preoccupa. Ci si guarda intorno sornioni. Mi sento un gatto stanco quanto vispo al momento giusto. Il rumore della fontana, mischiato alle parole d’amore e alle bestemmie dei pazzi crea un’aria ancora più paradisiaca.

Aspetto i miei amici. Non vedo l’ora di vederli. Anche se poi vorrò stare di nuovo solo. Mi contraddico spesso, ma non importa se la mia naturale filantropia è rotta dalla misantropia letteraria. Chiudo i miei appunti e torno alle letture, anzi torno fra le nuvole, torno alle città invisibili.

 

 

 

Trieste, 23 aprile, 2017

Sono molto felice di me stesso, nonostante le mancanze e le contraddizioni che mi assaltano come improvvise vertigini. Ho segnato molte immagini già; la più saliente è la visione di una bella coppia. Lei bionda e pallida; lui slanciato e modaiolo. Capisco dai gesti che discutono; lei si lamenta di qualcosa, lui con profonda empatia, abbassa il capo, tutto rivolto a lei. Non si muove, l’accoglie. Mi focalizzo meglio su quei gesti, mi accorgo che i ragazzi sono muti – almeno uno dei due. Penso che sia sublime che si confrontassero, con calore, con passione, con EMPATIA anche senza la propria voce. Quelle mani disegnavano veloci segni, cariche psichiche, desiderio di comprensione che da subito in me hanno sviluppato una profonda invidia. Comprendersi, compenetrarsi, congiungersi senza parlarsi, creare un’intesa convenzionale quanto unica.

Si tende sempre a compatire un menomato, ma per molti aspetti credo che compatiscano loro a noi “più fortunati” che abbiamo più parole, ma meno persone che ci ascoltano.

 

 

***

Come mai sei da solo?

 

Sono a Trieste, senza avere una donna.

Sto seduto su di un muricciolo.

Prendo decisioni, ascolto i passanti.

Mi diverto con poco, voglio un caffè.

 

Penso alla poesia, che vera e unica

tutto sa e non ti spiega

nulla. Che strano. Ho scelto la mia via.

 

Santifico chi ce l’ha fatta, prego

sulla statua di Umberto.

Rimango, sguardo fisso, ad aspettare

sornione audace mordente capace

l’avverarsi di questo mio destino.

 

 

 

24 – 28 maggio.

Un mio amico studia a Parigi. Primavera, un invito e il bisogno di qualcosa di indefinito. Sono andato. Per me è stato difficilissimo realizzare nella mia mente il tutto. Un click accorto, due offerte irrinunciabili e quattro informazioni di servizio ed ero materialmente pronto a viaggiare; si avvicinava il giorno x, ma la mia testa ancora non c’era. Perché non lo avevo mai fatto prima d’ora? Organizzare un viaggio così grande con una spesa così minima. Bagaglio a mano, cinque notti e zero pretese di lusso. Conoscenza del francese, il minimo per non essere scortese; pronuncia: quella di un cane che miagola. Fortunatamente in aereo ho attaccato bottone con una signora vicino a me che andava a trovare sua figlia a Parigi e una donna di trent’anni Parigina, futura architetta, ormai stabile a Venezia. La donna era un’ex insegnate di italiano: spiegava alla neo veneziana la fondazione della città di Padova da parte di Antenore; era destino, non potevo non intervenire. Grazie a loro, che mi hanno aiutato a comprare i biglietti e a prendere il treno giusto per il centro della città, non ho perso tempo per risolvere goffamente questi impicci pratici.

Il mio amico abitava in vista Notre Dame, si siamo dati appuntamento a mezzogiorno, proprio sotto la cattedrale. Salgo le scale della RER, fermata Saint – Michael, qualche minuto prima di mezzogiorno e vengo subito investito: una bellezza completamente diversa mi ha svegliato dal torpore del viaggio. Cielo sereno di un azzurro ciano, poche nuvole, che sembravano dipinte. Fiumi di turisti sul ponte della Senna. Pittori di cartoline, cordiali uomini accalappia turisti per un tour; la cattedrale bianca che splendeva di luce propria. Ancora la mia testa non si era convinta che fossi veramente a Parigi. Mi guardavo intorno, cercavo la Torre Eiffel per capire che non fossi nella città sbagliata. Niente, non si vede da lì. Mi strascino con la valigia verso l’appuntamento fissato con Matteo. Deambulo a bocca aperta, la gente cerca di parlarmi, ma io rispondo ancora in italiano. Sveglia! Tu es a Paris!

 

Ma Parigi è una metafora d’amore, non di più. Un sentimento forte, che ti coglie in tutta la sua bellezza, così, secolarmente definita. Come Roma. Ma Parigi è la città dell’amore. E io l’amore lo incontrai, davvero. Con lei. Mi leggeva Baudelaire e mi aiutava a capire la vita. Mi possedeva mente e corpo. Poi fu contraddittoria. Vidi sia la povertà che la ricchezza e fu lì lo scisma che mi cambiò veramente. Vedere come per mantenere un’apparenza si faceva brillare anche l’ambra. Ma una volta smascherata, una volta che tu hai fatto finta di non tenere a me, per poi girarti e piangere, quella dannata volta io ho colto una contraddizione fondamentale. Una contraddizione che non mi aspettavo da te, da tutta quella bellezza e passione.

Anche tu eri umana.

E me ne andai, come se nulla fosse. Come se quell’amore mi avesse lasciato solo bei ricordi.