Sull’immortalità dell’arte
Sull’immortalità dell’arte

Sull’immortalità dell’arte

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Di Shanna Luciani

“Morirò io, morirà il mio editore, morirà il capitalismo, moriremo tutti noi, morirà tutta la nostra società, ma la poesia resterà inconsumata.”[1]

Sono, queste, parole pronunciate da Pier Paolo Pasolini in un’intervista del 1978. In risposta alla domanda se anche lui, contestatore del consumismo, non producesse per il consumo, egli affermava l’impossibilità della poesia di essere ridotta a merce, in un mondo dove a far da padrone è il mercato e il bisogno disperato e ossessivo di produrre e consumare.
La poesia non può essere merce, perché a differenza di tutto ciò che viene prodotto nella società, non è destinata a perire. A morire è tutto ciò che accompagna l’arte: il suo creatore, la società, il mondo stesso forse, ma non l’arte e non la poesia. Non si tratta di qualcosa di transeunte, né di caduceo.

L’arte è un valore che trascende il tempo e la mortalità.

L’arte viene elevata a un valore immortale destinato a sopravvivere. In fondo, ne siamo tutti testimoni, continuamente. Non si leggono forse ancora i poemi omerici? Non sono ancora in grado di parlarci e far vibrare le corde del nostro animo, frammenti di poesie scritte da uomini e donne vissuti millenni prima di noi? L’arte non può perire, al contrario di una qualsiasi rozza e volgare merce prodotta dalla società contemporanea.
Per comprenderlo, il discorso di Pasolini va calato nella realtà della sua epoca, quella post boom economico, il periodo che ha visto la nascita della società dei consumi. Egli parla di ‘’edonismo del consumo ’’ una spinta irrefrenabile che muove l’uomo moderno a trarre profitto dai continui ‘’bisogni’’ che la società gli procura e a soddisfarli appunto consumando. E ciò, nel tempo, ha cambiato sentimenti, modi di pensare e certamente l’approccio alla vita.
Tuttavia, l’unica cosa che la società del consumo non può fare, apparentemente, è schiavizzare l’arte e abbassarla al ruolo di merce.

 Io produco, dice Pasolini, ma produco una merce che è in realtà inconsumabile.[2]


Una prospettiva di speranza.

Qualcosa, tutto sommato, può essere sottratto al mondo consumistico, alla ragione capitalista che tutto consuma, che produce ma non crea. La nostra società è connessa con la società dei consumi di cui parlava Pasolini. Società di cui, inevitabilmente, quella attuale è figlia. Proprio per via della stretta connessione fra la società di allora e quella attuale è possibile riflettere ancora sulla validità di tali parole.
Oggi, a quarantaquattro anni dall’intervista e dalle parole di Pasolini sono, quest’ultime, ancora vere? È ancora così? L’arte ha davvero mantenuto uno status intoccabile?
Prima di rispondere a queste domande bisogna considerare le trasformazioni che la nostra società ha attraversato negli ultimi quarant’anni.
La società dei consumi, quella che definiamo società capitalista, non ha conosciuto battute d’arresto. Al contrario, la sua crescita è stata irrefrenabile. I consumi e i bisogni dell’uomo moderno si sono evoluti; dunque, la produzione di beni di consumo ha dovuto adattarsi, modellarsi sulle richieste dei nuovi consumatori.
Il ruolo della televisione, che fin dal principio aveva il compito di instillare desideri nelle coscienze dei suoi astanti e spingere di conseguenza verso il consumo, è oggi sostituito in larga parte se non totalmente dai social.

La società dei consumi, si è fatta ancor più pervasiva e capillare.


Viviamo in una simbiosi quasi totale con
i media. Gli stimoli che ci arrivano sono continui, veloci e sempre in rapida trasformazione. Quel che è nuovo oggi sarà vecchio domani. Le mode – in ogni ambito – si avvicendano rapide e sferzanti. Ci lasciano sempre indietro ad arrancare verso un nuovo oggetto, un nuovo bisogno, una nuova necessità.
Basti pensare al mondo di Instagram, il social che maggiormente è utilizzato da giovani sotto i trent’anni (ma non solo). Una piattaforma che ha reso possibile la nascita di un
homo novus: l’influencer, il cui ruolo non è più neanche nascosto, è scritto chiaro e tondo nell’etichetta che indossa. Il suo compito, infatti, è quello di influenzare le scelte di un determinato pubblico. E fioccano dunque profili social delle persone più disparate, diverse per età e sesso, ma unificate da un’unica vocazione: vendere.
In una società come questa, così pervasa dal bisogno/desiderio di comprare e consumare, che evoluzione ha avuto l’arte, dunque?
Osservando il panorama culturale e letterario sembrerebbe che una parte della poesia, della letteratura e di altre branche artistiche non abbiano fatto altro che chinare il capo alla logica di mercato. In un mondo che va veloce ed ha perso in realtà il contatto con un tempo naturale, ma che vive di quello imposto dalla produzione e dal consumo, l’arte è diventata una moda. In un mondo di merci diventa essa stessa merce.
Sia chiaro che non si sta generalizzando: l’arte non è morta, ma è inevitabile vedere come vengano prodotte ingenti quantità di contenuti artistici che ricadono nella logica della compravendita.
Le case editrici stesse, ancor più di prima, ragionano con logiche di mercato. Non che prima non accadesse, il fenomeno non è nuovo. Oggi sembra, però, che l’unica regola da seguire sia la via del guadagno. Un tempo ogni casa editrice aveva una sua filosofia, delle linee guida da seguire, che poggiavano su valori che si era scelto di abbracciare. Oggi l’impressione è che queste idee e questi valori siano stati subordinati al guadagno.
Ed è così che fioriscono i libri delle influencer, riempiti di banalità che già pullulano sui profili social e che non aggiungono nulla, non danno valore, non raccontano. Un prodotto confezionato su misura per il consumatore social che comprerà quel libro così come comprerà il set di trucchi o il bikini con il codice sconto della detta influencer. E quel libro non avrà vita più lunga dell’oggetto: cadrà presto nel dimenticatoio. Verrà consumato, più che letto, per poi esser messo da parte. Il lettore inseguirà la prossima uscita che verrà sponsorizzata sui vari social da case editrici e altri personaggi virali.
Siamo dunque ben lontani dalla merce inconsumabile di cui parlava Pasolini. Questa sembra essere pura merce, nata proprio con lo scopo di essere consumata.
Ma il fenomeno non si ferma qui. A denotare come l’arte ricada sotto la logica consumista-capitalista sono anche le martellanti campagne pubblicitarie che precedono l’uscita di libri che
già in partenza si sa faranno faville fra i lettori/consumatori.

L’hype e il libri da catena di montaggio.

 È la regola dell’hype. Un prodotto confezionato a priori che risponde alle esigenze di chi ne fa uso, in questo caso i lettori, viene presentato con largo anticipo, ovviamente sui social, con campagne di marketing realizzate ad hoc. Si crea l’anticipazione, il bisogno. Quando il libro sarà pubblicato orde di giovani correranno a ordinarne una copia. Il più delle volte, poi, tali operazioni si mostreranno per quel che sono: marketing vuoto di contenuto. Il libro si fa merce, pronto per essere consumato per poi gettato via in attesa di una nuova uscita che avrà più o meno le stesse caratteristiche della precedente. E così via, senza contar più sul contenuto, ma solo sulla confezione esterna.
Si potrebbero chiamare libri in serie: uguali nella scrittura e nella storia che sembrano usciti da una catena di montaggio. A ciò andrebbe anche aggiunto che i fiorenti corsi di scrittura impongono ai nuovi scrittori di utilizzare le regole e caratteristiche che finiscono per appiattire lo stile e rendere ogni libro uguale al precedente, ma questo discorso ci porterebbe fuori traccia.
Tornando al libro prodotto secondo questi dettami esso sembra non avere anima, perché non è quella che deve toccare e smuovere. A contare è il profitto.
Basterà fare un esempio: negli anni si sta assistendo a un fiorire di
retelling di stampo mitologico. Un retelling non è altro che una “riscrittura’’ di un’opera volta a narrarne le vicende (mitologiche o derivate da altre opere preesistenti) in altra ottica o chiave. Assodato il fatto che il lettore apprezza la mitologia e il retelling, ecco che da pochi che erano si sono moltiplicati e troviamo retelling dell’Odissea, dell’Iliade e di altri miti, soprattutto greci, in salse diverse. Questo di per sé non sarebbe un male, se fosse un modo per avvicinare i più giovani a questi testi fondamentali.

Il problema nasce quando il retelling non è che la scusa (scelta a causa della “moda’’ e della conseguente previsione di vendita e dunque profitto) per creare l’ennesimo contenuto artistico vuoto e banale che metterà in moto la macchina del marketing assicurandosi una buona fetta di lettori. Basti pensare che si è arrivati ad annunciare un nuovo retelling dell’Odissea, realizzato senza consultare l’opera originale, perché “lunga e noiosa’’. Il fatto ha causato una polemica sui social ma, nonostante ciò, molti giovani compreranno il libro “perché curiosi’’. A riprova del fatto che la logica di mercato si è perfettamente adattata al mondo dell’editoria e soprattutto alle esigenze della società e dei più giovani.

La letteratura “commerciale’’ è sempre esistita, come si è già detto, non siamo di fronte a un fatto nuovo. Basti pensare ai romanzi a puntate, gli ottocenteschi feuilleton. Erano rivolti a un pubblico di massa e il loro scopo era commerciale (utile a sostenere le vendite dei giornali su cui apparivano), ma non possiamo ignorare che da tali origini siano usciti anche nomi tutt’oggi considerati grandi, nel panorama letterario, come ad esempio Alexandre Dumas padre o Balzac.  
Si potrebbe sollevare la questione su cosa distingua l’antico romanzo a puntate, il
feuilleton, dagli attuali libri prodotti in serie o dai romanzi popolari oggi in voga. Ci sia avvicinerebbe all’annosa questione di definire cosa sia, in sostanza, l’arte. Tuttavia, si può spostare l’attenzione su un fatto diverso.

Il ruolo del letterato e dell’artista. Ciò che è drasticamente cambiato, nel corso dei secoli, e con un’impennata eccezionale negli ultimi anni è il ruolo del letterato, dell’artista, all’interno di una società che si industrializza e progredisce. Quel che Charles Baudelaire chiamava ‘’la perdita dell’aureola’’ [3]è oggi più che mai lampante. Nel racconto che ne fa l’autore francese emerge come il poeta, un tempo faro nelle tenebre per la società, con il progresso e l’evoluzione della società abbia perduto il suo antico ruolo. Non è più una guida, il suo ruolo di vate è andato in frantumi. Ha perso l’aureola, l’elemento distintivo che lo rendeva superiore alla massa e capace di indirizzarla. Nel racconto di Baudelaire, l’aureola rotola nel fango, ed egli non si china più a riprenderla. Essa giace a terra e chiunque può raccattarla. Potremmo quasi dire che oggi, a ripescarla dal rigagnolo siano giunte schiere di influencer e autori interessati più alla vendita che non a ricoprire ruolo di guida della società.
E, dunque, assistiamo all’asservimento della letteratura alla logica imperante del consumo. L’oggetto artistico o il libro non è più un qualcosa di inconsumabile, per tornare alla definizione di Pasolini, ma proprio il contrario. Svuotato di valori, esso viene consumato, con la voracità tipica di questa società moderna che corre alla velocità della luce, e dietro non lascia che cenere. Ma un piccolo spiraglio di speranza sussiste ancora: l’arte non è morta, così come non lo è la cultura. I libri, come gli oggetti artistici, che soccombono alla logica di mercato sono transeunti. Piccole meteore che spariscono senza lasciar traccia, prive della scintilla che crea i grandi capolavori capaci di nutrire l’animo umano. Questi ultimi non sono spariti dall’orizzonte, sono piccoli semi, perle rare, che nel caos che ci circonda ancora splendono e danno luce. Sono più difficili da trovare, forse, ma non sono andati perduti. E creano speranza per un futuro in cui l’arte e la cultura torneranno al centro, spezzando il vincolo che le lega al mercato. Per tornare a essere inconsumabili e immortali.


[1] Intervento di Pasolini alla trasmissione di Enzo Biagi, “Terza B, facciamo l’appello’’, Programmata per il 27 luglio 1971, la trasmissione fu cancellata e ripresa da Biagi su ‘’La Stampa’’.

[2] Ibidem

[3] Contenuto ne Lo Spleen di Parigi, uscito postumo nel 1869